Sulla vicenda artistica a Forlì negli anni ’60 e su GIORGIO SPADA
Fu a metà degli anni ’60 che Forlì visse una breve ma interessante situazione artistica, una di quelle (e nella nostra città non furono tante) che fanno alzare la temperatura culturale del momento. Il merito va senz’altro attribuito a cinque pittori forlivesi (Ulisse Bugni, Sergio Camporesi, Mario De Fanti, Vito Montanari e Giorgio Spada) a cui si aggiunsero altri artisti della città e di quelle vicine, in particolare Faenza e Ravenna (Nevio Bedeschi, Gino Del Zozzo, Franca Forconi, Guido Onofri, Angelo Ranzi, Sergio Saviotti) e saltuariamente alcuni pittori bolognesi come De Vita, Pozzati, Cuniberti, Ghermandi. Il gruppo a volte ristretto, a volte più allargato, si riuniva periodicamente -per confrontarsi su problemi e tematiche d’arte o approfondire la conoscenza di grandi artisti contemporanei- in vari luoghi: dalla saletta d’arte Usaiba (via G.Regnoli ,6) allo studio pubblicitario di Franco Gondoni (Nico), dalla Galleria Mantellini (corso della Repubblica,135) a qualche locale di Forlì e dintorni (ad es. i ristoranti “Mario” e “Le Martinelle” lungo la strada per Rocca delle Caminate, e soprattutto “La Colombaia” sulla strada per Bertinoro). Il desiderio di conoscere, di verificare, di parlare su eventi in campo artistico era tale che agli appuntamenti nei ristoranti si aggiungevano quelli quotidiani in galleria che avevano poi un seguito nella serata, sotto il Chiostro di San Mercuriale, come ricorda Vito Montanari. Ma le più animate erano sicuramente le serate trascorse nei locali fuori città. Ciascuno portava una sua opera recente e su questi dipinti nascevano discussioni interminabili che si protraevano fino a notte inoltrata: un quadro veniva analizzato fin nei minimi particolari. Questi scambi di opinioni, a volte accesi, ma sempre rispettosi, cementavano una reciproca stima. Le tendenze e i movimenti di avanguardia che agitavano il mare dell’arte, ben conosciuti dal “gruppo”, giungevano però a Forlì attutiti, se ne parlava (ovviamente fra i non addetti ai lavori) come di una letteratura distante che non coinvolgeva la “piazza”. Più vivaci, le vicine Faenza e Cesena, potevano far leva su eventi o artisti che già avevano rapporti o legami con ambienti extra-romagnoli e quindi si respirava un’aria più aperta e sollecitante. Faenza era sede del Concorso internazionale della ceramica e Cesena proponeva un turnover abbastanza frequente di mostre della cosiddetta “Scuola cesenate”.
L’arte in Romagna di quegli anni mantenne una “costante figurale” che anche nei casi “di corrosione più esasperata” come nelle opere di Andrea Raccagni e di Germano Sartelli, non venne eliminata, anche perché la poetica del neorealismo dagli anni ’50 in poi venne accolta dalle giovani generazioni di allora come congeniale al clima che si respirava in quel periodo nel nostro territorio. Molti artisti non rinunciarono alla fedeltà verso i modelli pittorici di fine ‘800, altri –pochi in verità- sentirono la necessità di rinnovarsi e di tradurre nelle loro opere la interazione fra arte e vita, arte e realtà. In un saggio su “Questa Romagna” (ed. Alfa, Bologna, 1963) il critico forlivese Marcello Azzolini, di cui si dirà in seguito, così delinea la situazione artistica romagnola di quegli anni: “Forse non è permesso dire che esista, in Romagna, una situazione a livello tale da consentire un rapporto adeguato con le manifestazioni della cultura italiana, ma resta il fatto positivo che gli artisti che per primi hanno cercato nel dopoguerra un adeguamento culturale, quali Cappelli, Sughi, Caldari, Ruffini, Verlicchi, Raccagni, Barbieri, Sartelli, Biancini, e successivamente, ma come conseguenza, Piraccini, Reggiani e lo scultore Masacci, non soltanto hanno raggiunto risultati che agevolmente si inseriscono in un contesto nazionale, ma sono stati promotori di una condizione agevolante uno sviluppo anche delle individualità………E’ comunque sufficientemente chiaro che l’arte in Romagna ha profondamente mutato volto, avendo avvertito, e rimanendone positivamente influenzata, l’estesissimo complesso problematico di tutta la cultura moderna, indipendentemente dall’estensione ricettiva di un pubblico localmente vicino”.
I nomi citati sono quelli degli artisti che, uscendo dai confini della provincia, avevano raggiunto una certa notorietà. Mancano, in quest’elenco, i nomi di Maceo, di Gino Del Zozzo, di Francesco Olivucci, di cui comunque si parla in un altro punto del succitato saggio. Uno spazio viene dedicato anche ad Irene Ugolini Zoli che in quegli anni stava iniziando il suo iter nel mondo dell’arte. Non sono citati invece i giovani artisti del “gruppo”i quali, pur dimostrando un impegno costante e non superficiale, rimanevano ai margini delle attività degli allor più noti maestri. Tuttavia i loro incontri di quegli anni furono per tutti un’esperienza importante che segnò una crescita non solo per i protagonisti, ma anche, seppur lentamente e con fatica, per i Forlivesi.
“In Romagna -le parole sono di Nevio Bedeschi- non abbiamo mai saputo rinunciare alla bella pittura e questo ha impedito una denuncia graffiante. Marcello Azzolini ci ripeteva spesso che se volevamo lanciare un messaggio con forza, dovevamo tagliare i ponti con la bella pagina e col tonalismo. Ci riuscì Mario Bocchini, Mattia Moreni (abbandonando la bella tavolozza naturalista/astratta delle angurie prendendo poi a prestito i robot), Rossinello e pochi altri”. Negli anni ’60 le gallerie forlivesi più attive erano praticamente due: l’Usaiba (via G. Regnoli, 6) diretta da Gianna Nardi Spada e che rimase aperta fino alla fine del decennio e la Galleria Mantellini in Corso della Repubblica ( in un primo tempo al numero169, poi spostata al n. 135) diretta da Maria Mantellini . A queste si aggiunsero, poi, la Galleria “Il Muretto” e talora la Sala Garzanti all’Hotel della Città dove venivano allestite anche le Biennali Romagnole, uno degli appuntamenti artistici più attesi a Forlì. L’attività di questi ambienti d’arte era legata in gran parte agli umori e alle attese della città: molto figurativo e pochissima avanguardia. Su tutti giganteggiava la figura di Maceo Casadei per molti anni protagonista indiscusso della scena artistica forlivese. Accanto a lui Morigi, Gurioli, Ragazzini, Cantagalli, Irene Ugolini Zoli oltre ai cesenati Sughi e Cappelli. Pochi i nomi di rilievo extra-Romagna se si escludono alcuni partecipanti alle Biennali Romagnole, organizzate da Gianna Nardi Spada , o gli artisti (in parte bolognesi) che il critico d’arte forlivese Marcello Azzolini, attraverso il suo impegno culturale e i suoi contatti con grandi artisti italiani, conduceva nella nostra città facendoli conoscere attraverso personali di grande spessore. Si alternarono mostre di Ilario Rossi, Mandelli, Pozzati, Romiti, Treccani, Brindisi, Cascella, Vacchi, Cantimori, Ciangottini…Per molti anni Marcello Azzolini fu l’anima, la guida e la presenza stimolante per tanti giovani artisti a cui il critico generosamente offriva consigli, spendeva energie senza però influenzare mai le loro scelte. Erano i tempi –scriveva Vittorio Mezzomonaco nel Pensiero Romagnolo del marzo 1975, pochi giorni dopo la morte di Azzolini– “in cui si era ancora tutti insieme e impiegavamo il nostro tempo libero in discussioni, spesso accese, dominate dalla sua esuberanza dialettica e dalla sua straordinaria competenza in un settore, quello della critica d’arte, nel quale non aveva, in tutto il forlivese, chi gli potesse stare alla pari”.
Attorno ad Azzolini nacque quel gruppo di pittori romagnoli di cui si diceva all’inizio “impegnati -scriveva Sergio Camporesi- a tracciare sulla carta o sulla tela un po’ della nostra storia di uomini, tra l’indifferenza di questa amabile, ma sorda città” e ancora, in un successivo articolo apparso sul Pensiero Romagnolo (22-3-75), Camporesi, dopo aver sottolineato, con grande tristezza, che con la morte di Azzolini se n’era andata una parte di loro (ossia del gruppo) e che tutti in qualche modo gli erano debitori, scriveva: “Non so come nacque attorno a lui un gruppo di pittori forlivesi. Seppi solo che si riunivano e discutevano; cercavano, tentavano di capire un po’ meglio quel che avveniva nel burrascoso mare della pittura contemporanea, dove ormai tutto era permesso, anche smarrirsi, anche paralizzarsi….. I quadri mostrati erano scorticati vivi, non per il gusto di criticare il lavoro altrui, ma per aiutarci ad uscire dalle secche dei nostri “luoghi comuni”. Marcello pacatamente, in mezzo a tanta furia iconoclasta, portava avanti il suo discorso sulle avanguardie, sulla sperimentazione, fece riscoprire a qualcuno di noi la piacevole avventura del collage. Qualche altro, invece, senza rancori o rotture di amichevoli rapporti, preferì rinunciare, disertando le riunioni. Restammo in cinque o sei attorno a Marcello a macinare quadri assieme a certezze e incertezze, scontrandoci spesso, stimandoci sempre; poi anche lui, preso da altri impegni, si allontanò, ma continuò sempre a chiedere notizie di noi, del nostro lavoro. Ai rimasti parve normale e facile continuare quelle riunioni che invece si rivelarono subito noiose e senza mordente: chi ci teneva uniti era solo Marcello coi suoi schemi, coi suoi pregiudizi a volte concordi e a volte opposti ai nostri. Però avevamo scoperto di non poter più dipingere come prima”. Questa, in breve, la storia del gruppo e dei loro incontri culturali a cui partecipavano talora gli artisti bolognesi citati all’inizio, invitati a Forlì da Azzolini. L’esperienza clou di quel periodo fu sicuramente l’”avventura del collage”, destinata ad imprimere una traccia non indifferente nella storia artistica del gruppo, anche in chi non ne fece un’esperienza diretta, ma ne respirò gli umori sollecitanti e il fascino. La realizzazione dei collages reca una data, 1966, perché in quell’anno alcuni del gruppo allestirono delle personali nella nostra città, accolte con stupore e talora con diffidenza da parte di parecchi Forlivesi non abituati a confrontarsi con questo linguaggio artistico considerato provocatorio. Parlare di collage significa, nel caso specifico di questa mostra, volgere l’attenzione all’opera di Giorgio Spada, il primo pittore del gruppo che espose in una personale le sue opere ardite di carta incollata. E lo fece con coraggio,determinazione, lucidità di scelta, ben sapendo che assieme alle opere avrebbe esposto anche se stesso. Giorgio Spada era, fra gli artisti del gruppo, uno dei più impegnati e convinti. Lo era sempre stato. Gli amici di quegli anni sono concordi nel definirlo una persona oltremodo intelligente, colta, sensibile e assolutamente sincera.
“Non era un provinciale - sostiene Nevio Bedeschi - perché era sempre informato su tutto e su tutti. Le sue scelte artistiche facevano parte di un progetto culturale mediato dalla conoscenza profonda su artisti contemporanei, fra cui Sutherland , Appel, Bacon”.
“Scelte, le sue -aggiunge Ranzi- fatte sempre ad alti livelli”. Giorgio Spada aveva un grande rispetto per l’arte e non era disposto a venire a patti con soluzioni che fossero solo di facciata. Per questo aveva allestito poche personali e quelle poche le aveva preparate con cura, esattamente come faceva quando aiutava un amico ad organizzare una personale o un’associazione per una retrospettiva. Era dunque severo con se stesso e sempre teso a raggiungere esiti più alti e significanti. L’esperienza del collage fu importante per Giorgio Spada tanto che ne segnò la produzione futura.
“ Anche nel collage, come nelle altre opere -sottolinea Nevio Bedeschi- l’arte di Spada poggiava sulla costruzione mentale, ma anche sulla gestualità fisica: il suo gesto era ‘orizzontale’, le paludi erano orizzontali, le curve dell’immagine procedevano da destra a sinistra o da sinistra a destra e si allargavano verso l’esterno”. Non a caso la città che gli piaceva era Venezia, una città, appunto, orizzontale. Il collage significò dunque la rottura, anche clamorosa, con i codici espressivi precedenti perchè si rinunciò all’oggettività a favore di un impatto –anche sconvolgente- con l’immagine. Fu questa una scelta coraggiosa perché si dovettero abbandonare le conquiste fatte, rimettere tutto in discussione e spostare l’attenzione dal modello “natura” a quello di tipo esistenziale. Presentando la mostra di collages di Giorgio Spada alla saletta USAIBA nel maggio 1966, Marcello Azzolini così ne definisce la sostanza: “Siamo in presenza di una lucidità inventiva e linguistica che potrà anche indulgere nelle pieghe e nei panneggi del preziosismo, ma affronta allo scoperto, fuor della trincea, l’urto del discorso realistico, vuoi che sia volto su tematiche esistenziali o psicologiche o persino sociali, con l’unico patto però che siano tradotte in termini di poesia”
Per chiarire l’effetto che produsse in città la mostra di collages di Spada ci sembra opportuno riferire le opinioni di due critici: la prima fu una classica stroncatura, la seconda, invece, indagò sulle motivazioni e sulla resa estetica di questa nuova tecnica. Bruna Solieri Bondi, nell’articolo apparso sul Resto del Carlino nel maggio 1966, dopo aver definito i collages un gioco che si augurava durasse poco affinché l’artista ritornasse presto ai “ferri tradizionali del mestiere”, scrive: “Questi cosiddetti nuovi linguaggi, non hanno poi i tanti significati che a loro vengono attribuiti con uno sforzo di meningi notevole. La pittura non si fa con le parole o con le buone intenzioni -come qualsiasi altra arte- ma con i mezzi che la contraddistinguono: il resto è moda ed espressione provvisoria”. Contraria è l’opinione di Ugo Dal Pozzo riportata sul Pensiero Romagnolo del 21-5-66 in cui il critico sottolinea le qualità artistiche e l’ansia di rinnovamento nei collages di Giorgio Spada: “ Esse [ le opere ] rappresentano una apertura intelligente alle prospettive di continuità e di rinnovamento e uno stimolo nei confronti di una fervida ricerca figurativa intonata all’attuale momento di vita culturale ed artistica. Questi collages di Giorgio Spada sono vere e proprie composizioni d’arte.”
Pochi giorni dopo la pubblicazione dei suddetti articoli, in un’altra presentazione per una mostra di un’artista forlivese, Marcello Azzolini ribadisce il suo sostegno al “gruppo” che “va crescendo all’insegna della sprovincializzazione, anche a rischio di incomprensioni e di ostilità. Certo [aggiunge il critico], la vita di questo gruppo non è facile. Non mancano reazioni e resistenze da parte di chi continua a credere nei dogmi, pur se applicati alla caducità degli eventi umani , e si rifiuta di vedere nei fenomeni la loro mutevolezza e non ammette quindi la necessarietà storica dei ricambi e degli avvicendamenti. … … In un tempo come il nostro, in cui tutto continuamente è chiamato ad essere posto in giuoco, personalmente apprezzo chi ha dei dubbi, che costringono necessariamente alle quotidiane verifiche, e sono conseguentemente portato a diffidare di chi abbia, invece, in tasca la chiave di una verità valida per tutto e per sempre…”.
Gli artisti di cui si è parlato finora erano persone colte, motivate e aperte a nuovi linguaggi: conoscevano i fermenti che agitavano il campo dell’arte nazionale ed internazionale: tutto questo grazie anche a Marcello Azzolini. Quando il critico se ne andò da Forlì nel ’67, mancando la sua verve e la sua intuizione “quasi medianica” (Giuseppe Chieco in “Le arti” n. 4/5 1975) il gruppo forlivese continuò ancora ad incontrarsi ma in modo più fievole anche se agli artisti non mancava la voglia di andare avanti. Quel che non c’era più era la guida del loro viaggio nell’arte. Nel gennaio del 1968, tuttavia, i cinque rimasti del gruppo, ossia Bugni, Camporesi, De Fanti, Montanari, Giorgio Spada, allestirono una mostra dei loro disegni. “Non sono disegni - si legge nel catalogo- nati deliberatamente per una mostra, ma piuttosto ragionamenti interni, ricerche, ipotesi per un discorso più vasto…” I cinque pittori mantennero una loro autonomia espressiva, ma comune a tutti, fu “una rottura con gli schemi della loro personale tradizione, un raffinamento dei mezzi espressivi, un aggiornamento interno polemicamente intenzionale”.
La loro presenza operante nel campo artistico degli anni successivi fu la miglior prova di un impegno che era continuamente in crescita, come dimostra, ad esempio, l’esposizione delle loro opere incisorie. Per raffinare questa tecnica il gruppo forlivese ebbe periodici contatti con l’incisore bolognese Leoni. Un’occasione, anche questa, per incontrarsi, confrontarsi, discutere. La storia del gruppo non finì in quell’anno, ma proseguì anche negli anni successivi, ad esempio con la collettiva “Arte perché arte per chi” del 1972. Anche questa fu un’esperienza “forte” perché mirata al coinvolgimento e alla relativa crescita in senso artistico della città. La mostra fotografa il gruppo dei cinque con in più l’aggiunta di altre voci del panorama artistico forlivese come Gino del Zozzo, Antonio Giosa, Mauro Maltoni, Roberto Prati, Carmen Silvestroni, Paolo Versari, Silvano Zanatta. Sempre in quel periodo il gruppo allargò i suoi confini con la presenza di altre giovani promesse: Roberto Casadio, Daniele Masini….- Il piacere di incontrarsi e di parlare d’arte era sempre vivo, ma il fervore degli anni ’65-’66 , reso più acceso da quella che allora era una novità di linguaggio, non fu più ritrovato.
Rosanna Ricci