Per Giorgio Spada

 

U n um  pis”, “Oh, chi oć nìgar”; Giorgio non riusciva a dissimulare il suo disappunto critico, anche verso i pittori che amava di più, sia che fossero i grandi, sia che fossero gli amici più intimi. Tanto disponibile e generosissimo nelle amicizie, quanto implacabilmente sincero nei giudizi sull’arte.

“Troppo didascalici”, così definì le mie prime prove di collages nell’adolescenza. E da quel momento il mio sforzo, in quegli sporadici tentativi di espressione rivoltosa dei primi anni ’70, fu proprio di smentire il tagliente, ma prezioso, giudizio di Giorgio. Mio padre non era così categorico, si limitava a dire di non saper utilizzare questa tecnica , proponendomi però come modello proprio un grande collage di Giorgio, opera dai misteriosi e inquietanti giochi di luci e di ombre.

C’era però in lui anche una forte componente ludica, una amicizia da ragazzi cresciuti nella strada, un po’ monelli, che era condivisa dal gruppo di pittori che si ritrovavano regolarmente al ristorante “La colombaia” verso Bertinoro (Vito Montanari, Ulisse Bugni, Mario De Fanti, Sergio Camporesi, il critico Marcello Azzolini, …e più tardi Daniele Masini e Antonio Giosa), e ancora dopo, negli anni ’80, Andrea Brigliadori, Virginio Pasini con tutto il gruppo dell’Associazione Melozzo.

Ricordo che al ricevimento al Grand Hotel di Roma, in una occasione ufficiale con le autorità capitoline per la consegna del Premio Marco Aurelio nel gennaio 1975, il cameriere veniva più di frequente al tavolo dei forlivesi per ascoltare barzellette, gag, imitazioni, rimanendo, al termine della cena, intrappolato in una specie di gioco in cui i nostri pittori si scambiavano gli ambìti riconoscimenti in vorticosi passaggi all’interno della grande porta girevole dell’ingresso.

 

Della pittura aveva una considerazione alta, non accademica, ma come di un lavoro in cui la tenacia, l’esercizio regolare avrebbero comunque portato frutti apprezzabili. C’era in lui l’urgenza di promuovere l’opera dei giovani artisti romagnoli, attraverso concorsi pubblici secondo un ideale sportivo forse un poco fuori dal tempo, nell’illusione di far intervenire il “mercato” solo in un secondo momento, a scoperta dei talenti già avvenuta.

Nonostante questo, Giorgio non era certo un ingenuo: aveva ottime capacità organizzative, velocità e sicurezza nel selezionare le opere da inserire in mostra, raffinata abilità nell’allestimento.

 

Le tre esposizioni seguite alla morte di mio padre sono state possibili soprattutto grazie alla paziente opera del suo amico Giorgio, che voleva curare con scrupolo ogni dettaglio, dalle cornici, agli accostamenti tonali dei quadri, all’illuminazione…avendo a disposizione mezzi economici ridottissimi. Mi sembrava di assistere, nel vederlo al lavoro con l’inseparabile Masini e il giovane Massimo Proli, ad una delicata operazione di origami. Ma credo che il capolavoro di allestimento della coppia Spada- Masini sia avvenuto con la mostra dello scultore Gino Del Zozzo, forse la più bella mostra di artista contemporaneo organizzata a Forlì.

 

Perciò egli è stato, probabilmente per le suggestioni ricevute in tal senso dalla madre, un importante operatore culturale, anche se sicuramente avrebbe rifiutato questo appellativo: nella sua persona erano operazioni indistinguibili l’essere pittore e organizzatore di manifestazioni artistiche. La sua era una concezione “artigianale” del lavoro, dal momento dell’ispirazione, alla scelta delle procedure tecniche, alla cura del catalogo e delle fotografie, fino alla esibizione pubblica c’era una continuità necessaria e obbligata. In ciò ho sempre notato una differenza con il comportamento di mio padre, per il quale, crocianamente, il momento dell’espressione esauriva e soddisfaceva pienamente il suo fare arte.

Ma che dire della pittura di Giorgio, con il suo procedere rigoroso per cicli, per marce di avvicinamento in quel nucleo di inafferrabile ambiguità, simulazioni e occultamenti, di cifre alfabetiche criptiche che è l’immagine del mondo visto in modo ravvicinato, per successivi ingrandimenti alla ricerca del limite del visibile e del decifrabile? In che rapporto era tutto questo fare pittura con l’assidua pratica fotografica? Posso solo abbozzare un primo tentativo di risposta. Questo andare a Venezia nelle morte stagioni a fotografare i canali, i portoni corrosi, i manifesti ormai illeggibili, le vetrine di maschere cariche di ambigui riflessi, studiati attentamente con l’esposimetro manuale, ha senz’altro una stretta parentela con la pratica della caccia (secondo una definizione della Sontang), della raccolta di “alimentazione visiva”, all’interno di uno dei siti turistici più fotografati al mondo. Una vera e propria sfida all’immagine massificata di Venezia, o forse attraente proprio per la sua ambivalenza: sempre vista e ogni volta nuova, inesauribile. E’ questa una delle emozioni che ricorrentemente avverto nelle tele di Giorgio: un illimitato amore per un riprodursi organico della vita, un rincorrersi di singole tonalità e forme, suonate secondo una libertà da orchestra Jazz. Una rivincita che la natura ottiene sempre nel tempo sull’umanizzazione dell’ambiente.

 

Franco Camporesi