GIORGIO SPADA O DELLA PITTURA

 

 

Ogni anno, a Natale, Giorgio Spada preparava una litografia e la regalava agli amici. Arrotolava accuratamente i grandi fogli di carta densa e compatta, uno per uno, e faceva lui stesso il giro dall’uno all’altro di noi, lasciandoci “per le feste” quel prezioso frutto del suo lavoro d’artista. Sapevamo tutti, infatti, quanto fosse prezioso, conoscendo bene la perizia tecnica e l’accortezza formale che Giorgio applicava, con maniacale cura, alla stampa di una litografia. Nel 1982, quando Virginio Pasini e Lucio Scotto, titolari della Galleria Melozzo, decisero di realizzare un grande libro d’arte (dieci litografie più un saggio introduttivo e un’antologia di testi) dedicato a Eugenio Montale nel primo anniversario della sua morte, Giorgio Spada si impegnò a seguire i tipografi in ogni fase della stampa litografica; e lo ricordo: attento per ore ad ogni dettaglio, scrutava le minime sfumature e imperfezioni, chiedeva di fare e rifare, e i tipografi, non per pazienza ma per vera convinzione, eseguivano.   A quel regalo, che ripeté per anni, egli attribuiva – come ci diceva lui stesso – un doppio significato: quello di testimonianza di un’amicizia, della sua conferma nel tempo; e un altro, per lui forse più importante: quello di rinnovare di anno in anno una sorta di appuntamento con la pittura, per dire a sé stesso e ai suoi amici che il vincolo che ad essa lo aveva legato per tutta la vita non era ancora interrotto. Ricordo con certezza che almeno una volta, in quella occasione natalizia, mi disse che la litografia che regalava era la sola cosa che fosse riuscito a fare quell’anno.

Giorgio era uomo di troppo equilibrato e consapevole assetto interiore per lasciare che il rammarico di una così sporadica frequentazione della propria arte si tramutasse per lui in angoscia; ed era così attento agli imperativi e alle scadenze della vita, alle esigenze dell’operare da essa imposte, che non si concedeva neppure, almeno parlandone, l’abbandono del rimpianto. Rimpianto, soprattutto, di non aver potuto perseguire fino in fondo quella attitudine – solo un antiretorico pudore mi trattiene dal chiamarla vocazione – all’arte della pittura che in lui aveva radici di sangue e  straordinarie risorse di cultura.

Negli anni della maturità, dopo una giovinezza di cui raccontava con calore ed anche entusiasmo (i tempi ravennati, lo studio di sua madre pittrice, la lezione degli artisti amici), ma senza speciale nostalgia, Giorgio aveva organizzato la propria vita intorno ai valori centrali e primari del lavoro e della famiglia, e si atteneva scrupolosamente, con scrupolo di dedizione e di amore, agli impegni che ne derivavano.

Accanto ad essi, la pittura occupava un posto contiguo e complementare, pur rimanendo in lui, nell’animo suo, il segno primo dell’identità. Voglio dire che Giorgio, al di là delle occupazioni e delle responsabilità, si sentì sempre e in primo luogo pittore. E alla pittura, al suo studio e alla sua pratica, riuscì a non rinunciare mai.

Di pittura, intanto, amava discutere. La conosceva a fondo, e cercava intorno a sé chi ne fosse altrettanto appassionato e partecipe. Così amava gli incontri, i sodalizi artistici, le chiacchiere prolungate in galleria, gli scambi di opinioni su questa o quella mostra, su questo o quel pittore, la conversazione competente, le amicizie elettive. Recuperava in tal modo quella consuetudine con i fatti e le cose della sua arte ai quali i fatti e le cose delle vita sottraevano spesso tempo e risorse.

Somigliava in questo al suo grande amico Sergio Camporesi, anch’egli pittore sempre impegnato, e forse con più determinazione e tenacia di Giorgio, a sottrarre alle occupazioni quotidiane (l’insegnamento, la casa) tempi e spazi da riservare al dipingere. In entrambi la pittura, impedita dal diventare un mestiere, una professione esclusiva e permanente, dominava come passione, rivendicava la propria natura di vocazione, conservando in tal modo l’intensità e la vigoria di un amore sempre avvertito e tentato e mai interamente appagato e vissuto.

Così ci si incontrava, di solito la domenica mattina, ma di tanto in tanto, nello studio di Sergio; e lì in quella mansarda piena certo di quadri ma anche pervasa da sottigliezze musicali e popolata da finezze librarie, si faceva mezzogiorno e anche più indugiando su problemi di composizione e colore, coinvolti nei tormenti e nei dilemmi della creatività pittorica, che prendevano spesso in Sergio il passo e la tensione dell’ansia, e in Giorgio piuttosto il sottile sentiero delle distinzioni tecniche. Come pittori, avevano infatti questo in comune: che tenevano entrambi un quadro fermo sul cavalletto anche per mesi, facendo e rifacendo, provando e riprovando, quel giallo, quella colatura, quel tono, quel rapporto, finché un giorno una certa ragione interna nota a loro soltanto non gli facesse dire che il quadro era finito, in quel punto esatto, con quell’ultimo tocco della mano.

Cosicché accadeva ad entrambi, pur essendo l’uno, Sergio, pittore innamorato di interni e perciò di situazioni e figure umane calate in ambienti allusivi e spesso simbolici, e pur essendo l’altro, Giorgio, pittore soprattutto di informali coesioni coloristiche e tonali, quasi sempre spogliate, quindi, di troppo evidenti residui figurativi e realistici, accadeva ad entrambi di riconoscersi simili nel primato che accordavano, discutendo, ai problemi tecnici del dipingere, all’idea che la pittura fosse, in ultima istanza, essenzialmente una questione di pittura.

Di queste cose amavano parlare con gli amici. E fu così che, negli ultimi anni e specialmente per tutto il tempo che fu attiva la Galleria Melozzo di Pasini e Scotto, diventarono abituali i piccoli raduni alla pizzeria Cubana, dove si poteva alternare alla conversazione con qualche signora il discorso a loro più prossimo sulla organizzazione di una mostra o sullo stato delle arti figurative a Forlì. Non senza i racconti di altri tempi, quando fiorivano le gallerie d’arte, ed era fitto il dibattito di artisti e di gruppi e di correnti, e quando insomma era la giovinezza a dar sapore a tutte le cose e a tutte le idee.

Lo studio di Giorgio, quello almeno che conobbi io, una stanza nel suo appartamento di via Torricelli, era tenuto con un ordine e una pulizia così totali da far pensare che lì nulla accadesse, che ogni cosa, libri, cornici, quadri, cavalletto, barattoli, pennelli, vi fosse stata posata per rimanervi immobile.

Sembrava, e glielo dicevo, più l’archivio museale di un pittore che non il luogo privato di un artista operante. Mi rispondeva che tanto gli era reso necessario dalla vita di casa e soprattutto dal fatto che poteva ormai lavorarvi solo la domenica, quando appunto gli si dispiegava davanti un po’ di tempo libero da altri impegni. Compresa, io credo, la cura di un acquario che lui e sua moglie accudivano e facevano brillare con estrema attenzione.

In quello studio stavano ben disposti i quadri già conclusi delle mostre passate, e quelli che via via salivano e scendevano dal cavalletto per quel puro assillo del perfetto dipingere che prima dicevo. Me li mostrava uno dopo l’altro; e a me pareva che non gli importasse tanto un giudizio vero e proprio – troppo esperto e sicuro era Giorgio per non assegnare a sé stesso il ruolo di primo e ultimo giudice del proprio lavoro – quanto piuttosto di cogliere in me il primo segno di un possibile spettatore, di un ipotetico visitatore di una ancor più ipotetica sua mostra. Era lui stesso, insomma, a preavvertirmi di quello che già andava bene nel suo quadro, e di quello che invece ancora no. Con la stessa chiarezza che impiegava a giudicare i quadri degli amici pittori. I quali di lui si fidavano.

Quei quadri che io volta a volta vedevo appartenevano in genere a dei cicli tematici ai quali Giorgio si applicava, dopo averli scelti, per lungo tempo, e ai quali era solito poi dedicare, quando fossero compiuti, una pur rara mostra.  

Così via via egli dipinse – ho sott’occhio i cataloghi delle sue mostre dal 1982 al 1991 – serie di quadri dedicate alla palude, alle radici, ai relitti, ai brani lacerati dei manifesti murali, alle maschere in vetrina del carnevale veneziano.

Oggetti e temi cari alla sua pittura, i quali gli offrivano materia per attente e persino microscopiche indagini formali, e che hanno in comune, come costante proposta – così mi pareva e così a me pare ancora – l’immobilità silenziosa, l’inerzia delle cose finite, l’assenza; per i quali scrissi, nel 1989, “di una sensibilità intimamente malinconica e triste, incline ad avvertire, nelle cose, un lascito di silenzio e di assenza, il segno della loro fine più che della loro vita”. Fine della storia e fine di tutte le storie. Quanto poi ciò corrispondesse davvero all’animo segreto di Giorgio Spada, alla sua indole e al suo pensiero, è questione che tra noi fu discussa, anche, ricordo, con qualche tensione, e che resta ora sigillata da un altro silenzio.

Quei suoi quadri, pressoché tutti, non hanno titolo; i cataloghi delle sue mostre non hanno indice. Si chiamano (prendo a caso): “olio su tela cm. 70 x 60”; oppure: “tecnica mista su carta cm. 23 x 24”; o ancora: “acquarello su carta cm. 21 x 30”. Forse non hanno neppure data. Perché dietro e prima della pittura, pensava Giorgio, stanno certo le parole, e la storia, e le cronache e i fatti. Ma per presentarsi agli altri la pittura -  pensava e diceva -  non ha bisogno di niente, solo di sé stessa. Per questo, credo, gli pareva che i critici, tutti i critici, quando scrivevano, parlassero sempre d’altro.

 

     Forlì, 25 novembre 2002                                  Andrea Brigliadori