Giorgio Spada, il senso della pittura

            di Orlando Piraccini

 

 

 

Su un requisito, quello della pluralità, o anche periodizzazione, delle esperienze i maggiori esegeti dell’arte di Giorgio Spada, e mi vien da dire Andrea Brigliadori e Rosanna Ricci, hanno molto insistito nelle loro più recenti rivisitazioni. L’accertamento non è di poco conto. Serve e come questo dato nel tracciamento di un itinerario retrospettivo non troppo impervio sul vasto e sedimentato territorio creativo dell’artista forlivese.

Dunque, la questione che si pone non riguarda la continuità o meno di un intento d’opera, bensì la capacità in Spada di confrontarsi con gli andamenti più generali della vicenda artistica contemporanea. Una capacità, va detto subito, sconfinata; tanto più sorprendentemente smisurata, fin dalla formazione, se si considera il sito della sua solitaria specola d’osservazione; all’interno, cioè,  di una  realtà culturale sostanzialmente ferma, come quella che è stata esibita da Forlì, negli anni dell’immediato dopoguerra, così placidamente attestata sulla tradizione accademica ottocentesca.

Certo, anche per Spada ha contato, eccome, la buona pittura imparata alle “belle arti” di Ravenna, con un maestro del tono come Teodoro Orselli, e poi, una volta a Forlì, a contatto con un erede del vedutismo impressionista del calibro di Maceo Casadei. E non andrebbe taciuta, in questo apprendimento in corso, io credo, la quotidiana abitudine all’effetto pittorico assicurato al giovane artista dalla madre Gianna Nardi Spada.

Già però nei primi anni Cinquanta, quand’ancora nel mito del tramando la cultura figurativa locale s’andava vieppiù accartocciando, accadeva che Giorgio Spada  mostrasse un’inclinazione naturalmente moderna nella scelta precipua di una non accettazione della pregressa ufficialità e dell’ininterrotto isolamento. Una rivolta da subito meditata la sua e, si direbbe, scaturita piuttosto da una necessità di continuativa riforma quella condotta in seguito, con rara intelligenza sul piano figurativo e per sempre sospesa sul filo della conoscenza e della critica.

In ogni caso, tutto muove, per Spada, come per molti altri artisti italiani della cosiddetta generazione di mezzo, in quell’aggrovigliato intrico di pulsioni creative, non di semplici compromessi espressivi, che ha avuto tante risoluzioni significative in uno spazio ideativo astratto-concreto. Tra l’intendere il quadro come valore formale autosufficiente e costruirlo come riflesso del reale, il nostro artista avrà dunque certamente calibrato i propri pensieri con il moto della sua anima. Fino a quella risoluzione di marca naturalistica,  che più d’altre ha garantito all’artista ed al suo costante bisogno di partecipazione sensibile alle dinamiche della realtà, le possibili  “germinazioni”  per un rinnovamento espressivo nella continuità della materia.

Così, se nella pittura di Spada il travaso di realtà non ha provocato in passato rotture azzardate nella direzione dell’”informel” - e si ricordano le liriche vibrazioni di certe “paludi”, tutte cariche di luce interna alla materia – possono forse apparire imprevedibili le persistenze tonali di matrice naturale in esperienze e cicli successivi, dai ‘collages’ ai ‘manifesti’ e ai ‘muri’ e, ancora, alle paludi, ma  stavolta della memoria e della storia?

In essi, è vero, come in un gioco d’incastri, di sovrapposizioni, di lacerazioni e di saldature, persistono quasi  per magia, tracce della grande cultura figurativa novecentesca: quelle che Sergio Spada ci racconta esser state importanti per il padre, penso non tanto sul piano stilistico, ma per fatti squisitamente concettuali, come per l’antirealismo baconiano, il metaformismo di Sutherland, fra immagine e realtà, e la sua poetica dell’inconscio, l’intimismo fiabesco di Chagall, il lirico surrealismo di Mirò, l’informale lieve di Music; e, infine - sorprendentemente, ma solo per l’ anticipo rispetto al gioco delle mode - il graffitismo metropolitano d’oltreoceano.

Con questi tramiti linguistici, tra gli altri, Spada avrebbe dunque raggiunto l’estrema rottura, per dirla con Marcello Azzolini. E questo nei “collages”, grazie alla definitiva rinuncia ai giochi dell’a volte facile allusività ed in una più diretta assunzione di ruolo dell’immagine; ma pur sempre, ad alta dimensione metaforica, come ha giustamente stabilito Franco Solmi. Dal quale, è bene precisare a questo punto, nessun scostamento critico, a proposito dell’accumulo di allusioni formali che sorregge l’opera matura di Spada,  ci sembra oggi azzardabile.

 E’ semmai sull’ultima produzione che meritano senz’altro di essere considerati gli effetti di certe contaminazioni stilistiche come quelle pop ed iperrealiste, sulle quali fa piena luce  questa odierna mostra retrospettiva. E mentre tornano alla mente le parole dell’artista (per un’autopresentazione del ’70: “escludo una derivazione da compromessi di ordine consumistico, perché ho sempre ritenuto abbiano validità, contro ogni tradizionale pratico senso comune, solo le espressioni sincere, legate ad un profondo amore della vita”) rivelatrici d’un atteggiamento insofferente alle mode e ai dettati mercantili dell’arte, ecco che nell’ultimo si vede, riaffiorata, quella componente per così dire sociale rimasta talora al fondo della prassi pittorica.

Ecco che la pittura, strumento della sua stessa libertà, si fa per Spada oggetto e insieme tramite di un messaggio umano, chiaro, espressivo; che riguarda la capacità salvifica della pittura stessa.

Quanto accade in tante opere, che una sorta di caos rigenerativo e rivitalizzante, con i suoi magici stracciamenti, i virtuosi innesti, le ardite congiunzioni, le repentine sovrapposizioni, riesca ad elevare a poesia pittorica immagini e messaggi dell’attualità consumistica, ci appare un esito significativo della lunga militanza artistica di Giorgio Spada. Un esito inquietante ed al tempo stesso attraente come testimonianza viva di un artista, solitario e discreto esploratore del suo tempo, abitatore superstite dei territori ombrosi della pittura.

 

 

Per una mostra di acquarelli

di Orlando Piraccini

 

In occasione della grande mostra retrospettiva allestita un paio d’anni fa a Palazzo Albertini scrissi di Giorgio Spada come di un abitatore superstite dei territori della pittura. Intesi riferirmi in particolare alla fase matura di un artista che mi era sembrato  fino all’ultimo sicuro e sollecito  nell’intenzione di dichiarare il suo “credo” nella pittura, capace di presentarsi agli altri peculiarmente nutrita di se stessa: come pure volle sottolineare Andrea Brigliadori, senz’ancore fissate nelle sfere profonde dell’ispirazione, tra le parole, le storie, i fatti, la cronaca.

Oggi, davanti agli esemplari tratti da una produzione davvero smisurata di opere su carta è possibile concludere che Giorgio Spada ha sicuramente risolto in termini di pittura ogni suo atto creativo. E questo risulta specialmente se ci si riferisce ai fogli dell’“ultimo Spada”: i più variamente pigmentati, trasparenti d’acquerello oppure vibranti di pastello o anche resi intensi e corposi da sapienti aggregati di materie.

Dunque, grave errore si commetterebbe, io credo,   nel considerare “minori”, sol perché sulla carta e quindi secondo una persistente scansione tipologica della categorie artistiche, certe pitture di Spada, come quelle che vengono oggi  presentate per la prima volta al pubblico forlivese.

Anzi. Esse dimostrano, a mio avviso, che proprio sul supporto cartaceo, con i suoi limiti dimensionali ma anche con le sue vellutate rugosità, l’artista ha con naturalezza depositato le più segrete ragioni esistenziali della sua pittura.

E se dunque tornano nei fogli dipinti tra gli anni ’80 e ’90 i motivi più tipici della pittura di Spada, dalle paludi ai relitti, dalle radici, ai muri sbrecciati, dalle maschere ai manifesti lacerati, è pure possibile riconoscere in essi una forza ed una capacità di sintesi espressiva che hanno forse rappresentato le migliori conquiste da parte dell’artista, approssimandosi  il termine di un percorso creativo interamente svolto tra  ricerca e sperimentazione.

Amava ripetere Giorgio Spada che di nulla ha bisogno la pittura, se di vera pittura si tratta, per manifestarsi agli altri. Solo di se stessa.

Di certo, così come l’artista avrebbe fermamente voluto e preteso, queste sue “pittoriche carte” sanno oggi presentarsi da sole.