GIORGIO SPADA (Ravenna, 1927  Forlì, 1999) 

 

Non c’è parola che io, il figlio di Giorgio Spada, possa scrivere su queste pagine senza che essa  venga interpretata come conseguenza dei più intimi ricordi e del rimpianto, e quindi apparire segnata da una forte impronta affettiva.  E’ inevitabile: non credo di poter formulare un giudizio o descrivere una situazione che riguardi mio padre senza sentirmi fortemente coinvolto, senza provare una quantità di emozioni destinate inevitabilmente a sovrapporsi ai dati e alle date.

Tuttavia non avrei, per nessun motivo, delegato ad altri il compito di parlare della sua vita, che è altra cosa rispetto al suo percorso artistico, e nello stesso tempo è un tutt’uno con esso.

E anche se probabilmente altri sarebbero in grado meglio di me di ricordare alcuni particolari o di ordinare con maggiore scientificità i dettagli cronologici, voglio essere io a farlo, perché so come lui avrebbe voluto veder tracciare la sua biografia: come si dipinge un quadro. 

Vorrei che le parole avessero la forza prorompente o la delicatezza infinita di certe pennellate, per riuscire a raccontare non tanto la vita e la carriera di Giorgio Spada, ma Giorgio Spada.

Man mano che il tempo passa e i ricordi riaffiorano e si affollano, mi appare con sempre maggiore intensità la statura di un uomo piccolo che racchiudeva un mondo interiore di rara ricchezza.  Facile dirlo, per un figlio.  Eppure chi l’ha conosciuto al di là dell’occasionalità, chi l’ha conosciuto veramente, può capirmi.

Negli anni Sessanta un critico d’arte, scrivendo in una rivista specializzata un articolo su alcuni pittori romagnoli, usò queste parole:  Giorgio Spada è forse l’ultimo poeta di questa generazione di pittori.   E tra i fogli d’offerta lasciati sul tavolino il giorno del suo funerale ho letto: A Giorgio, mio amico. Il benzinaioSono due dimensioni di uno stesso uomo, e non sono che due segni di matita, utili appena ad iniziare, ma tali da farmi comprendere che quando sarò giunto al termine di queste pagine avrò appena avviato un racconto che dovrà proseguire per altre strade.  Una di esse sarà quella di leggere ciò che dipingeva.

 

Aveva un sorriso particolare quando si apriva e diceva qualcosa che per lui era importante: le labbra si facevano sottili, la fronte si arrossava, la voce era velata e gli occhi luminosissimi.  Con quel sorriso un giorno disse, per rispondere ad alcune mie perplessità sul soggetto di un quadro : Ogni cosa è colore.

 

L’elenco delle partecipazioni, dei premi, delle mostre personali verrà trascritto in calce, perché non appaia che come un’appendice. Non per svilire la loro portata: ciascuno di quei momenti ha rappresentato un impegno, un punto d’arrivo e di partenza, un riconoscimento, a volte un’emozione.  Tuttavia non è in quell’elenco, come non è in alcun curriculum o medagliere, il senso di ciò che è stato. Sarebbe insufficiente e fuorviante mostrarlo come a dire : Ecco, vedete come era bravo? Non era bravo in questo, non era pittore per questo.

 

 

 

 

 

Ravenna

 

 

Per lo più preparava da solo le tele sulle quali dipingere.  Provava quasi un senso di fastidio per i quadretti preconfezionati.  Preferiva sagomare con i propri attrezzi i listelli fino a dar forma al telaio.  Poi tagliava, adattava, tirava la tela grezza fissandola al legno.  Era un primo contatto, fisico, con il quadro. A questo punto iniziava una sorta di rito.  Spandeva sulla tela certe sostanze che ne smussavano e ammorbidivano la trama, aspettava che asciugassero e solo allora dava la prima “passata” di colore.  Non sempre il bianco, non sempre in modo uniforme.  A volte addirittura la “preparzione” avveniva su tele già dipinte che aveva deciso di cancellare.  Allora il pennello lasciava tratti di tinte neutre in modo non uniforme, ma seguendo il disegno precedente, isolando colori e forme, indugiando su toni o piccoli particolari, fino a riempire ogni vuoto.  In quel distruggere c’era il gusto del creare, pareva di assistere alla nascita di un quadro a rovescio, come nel riavvolgersi di una pellicola. Ed era quasi un omaggio a ciò che era stato, allo spirito che sulla tela sarebbe comunque rimasto.

Su quella base avrebbe poi dipinto.

 

Si nasce spesso in una data diversa da quella registrata sui documenti d’identità. A volte molto più tardi, quando si comprende il senso della propria vita, si affronta una svolta, si opera una scelta che porta a rimuovere il senso di ciò che si è stati fino a quel momento, pur mantenendone l’esperienza e il ricordo.  Giorgio Spada in questo senso nacque nel 1947; a vent’anni non ancora compiuti, per l’anagrafe.  Il 29 ottobre 1927 era iniziata una lunga premessa, come un periodo di preparazione durante il quale avrebbe raccolto e conservato gelosamente per il futuro una serie di esperienze negative e positive, a volte col conforto di momenti preziosi di calore ma segnate comunque da un’assenza, costante e forse dolorosa.

 

Forse i primi anni, quell’infanzia che nel ricordo di molti ha contorni ovattati e un alone di magia, furono felici.  Ravenna era una città-paese affascinante, con i suoi vicoli da porto di mare, gli orti dietro casa rivelatori di un’urbanistica contadina accanto ai monumenti, discreti all’esterno per quanto splendidi nella penombra degli interni, di un passato di capitale d’impero e di cultura.   Si viveva ancora la strada e la gente di strada era di casa, e i soprannomi e l’istinto di burlare nel dialetto sguaiato di strada univa le case l’una all’altra.   Era il mondo irriverente e sanguigno di Stechetti/Guerrini, un mondo che nascondeva gelosamente la propria cultura millenaria sotto una spessa scorza di gioviale trivialità, ospitando con uguale calore i turisti abbagliati dalla maestosità dei mosaici e il popolo incapparellato delle osterie.  

 

In una vecchia scatola di ferro ho trovato oggetti d’altri tempi.  Minuscoli taccuini sulle cui pagine, con grafia da vecchio maestro, sono annotati i versi, in lingua italiana o in dialetto, di canzoni perdute.  Occhialetti a pince-nez in una custodia di cuoio, orologi da taschino: uno più grossolano, un altro raffinato, con la sua catenella ancora intatta.  Un libretto, l’Almanacco socialista per l’anno 1900, fogli sparsi con appnti e indirizzi.  Ma anche un paio di guanti bianchi da sera, un astuccio con un minuscolo binocolo da teatro, foto consunte stampate su cartoncino.  In altre scatole fiumi di corrispondenza, volantini dai toni sovversivi, ritagli di giornale e una foto di gruppo della Seconda Internazionale Socialista, talmente fitta di volti da rendere impossibile riconoscere chiunque.

 

Il nonno materno, Giuseppe Nardi, socialista di fede, di penna e di prigione, quel nonno che Giorgio rimpianse sempre di non aver conosciuto, nelle osterie pagava da bere agli anziani convincendoli a cantare i canti della loro giovinezza, i cui versi trascriveva fedelmente per poi metterli a confronto con i canti antichi della pialassa e dei pescatori.

Nonno Spada, invece, Agide dalle grandi orecchie e dagli occhi chiari sulle cui ginocchia Giorgio ricordava di essere stato, viveva una nobiltà di nome che, anch’egli socialista, contrastava con una situazione finanziaria in progressivo decadimento, aggravata dal tenore di vita di un figlio che pareva irresistibilmente abbagliato da quella belle époque tardiva e un po’ provinciale che si respirò nei primi anni Venti, ad esorcizzare i fantasmi della grande guerra appena conclusa.

 

 

Il figlio di Agide, Mario, aveva sposato nel ’25 la figlia di Nardi, Giannina detta Gianna.

Giuseppe era morto l’anno prima.  Aveva sempre cercato di rimandare, se non scongiurare, quel matrimonio, perché vedeva che il giovane Mario non riusciva a staccarsi da un mondo al quale non apparteneva e che ne risucchiava, implacabile, energie e risorse.  D’altro canto non aveva condiviso neppure la decisione della figlia, conclusi gli studi magistrali, di frequentare l’Accademia di Belle Arti.  Ma Gianna aveva un carattere ostinato e tenace e sulla scorta di tale carattere sarebbe rimasta ferma nelle due scelte (un matrimonio fallito in partenza e la totale dedizione all’arte) che le avrebbero poi reso l’intera vita triste e affascinante insieme.  E sarebbe stata una scelta destinata a ricadere, nel bene e nel male, sulle spalle del figlio.

Certo Giorgio durante i primi otto, nove anni di vita non ebbe modo di avvertire solitudine o disagio, anche se spesso la madre era assente per lavoro (era associata a Luigi Emiliani in uno studio faentino che oggi definiremmo di design, nel quale progettava e realizzava arredamenti, cuoi artistici, scialli, decorazioni, impegnandosi contemporaneamente in lavori di affresco e di restauro per chiese e committenti privati).  E assente era spesso anche il padre, che stava a poco a poco allontanandosi dalla famiglia.

Nel 1936 questa si dissolse definitivamente, anche se Gianna tentò in tutti i modi, nei rari intervalli che il lavoro le lasciava, di restare accanto al figlio e di seguirlo.  La società con Emiliani era naufragata e i lavori a lei affidati erano sporadici, per quanto sempre più prestigiosi; Mario era stato trasferito in Libia per seguire i lavori della Litoranea.

Giorgio restò a Ravenna, per completare la prima parte degli studi sotto il controllo paterno del nonno.  Le pagelle semestrali dell’Istituto Musicale Giuseppe Verdi, dove studiò violoncello per cinque anni, raramente erano firmate dalla madre : per lo più recavano la firma di Agide Spada e in basso quella del Direttore, Francesco Balilla Pratella.

Nel ’38 fu iscritto a convitto ai Salesiani di Faenza.  Quattro anni necessari per frequentare l’Istituto Tecnico Don Giovanni Bosco, quattro anni lunghissimi. 

Non ha mai parlato volentieri di quel periodo, ma ogni tanto nel raccontare affioravano ricordi di profonde amicizie con i compagni, di estenuanti lezioni di latino, di audaci scherzi agli insegnanti. Giornate trascorse a servir messa, a sognare i mondi di Salgari e di Verne, a fumare di nascosto le sigarette comprate ai più grandi.  Era la scuola descritta dal Fellini di Amarcord.  Ricordi di un’età ingrata, vissuta come una reclusione.  Solo si illuminava quando tornava con gli occhi di allora alle visite della madre.  La ricordava bellissima mentre arrivava, la domenica, con la sporta delle meraviglie sotto braccio.  Salamini, ciccioli, marzapane, cibi dal sapore paradisiaco che lui avrebbe poi diviso con i compagni, la sera, in cambio di qualche figurina e del legame prezioso che derivava dalla complicità.  Ma era la figura della madre che affiorava sopra ogni altra emozione, quasi una fata che riemergeva da un mondo incantato nel quale era donna e uomo insieme, con la dignità di una donna sola che da sola procurava il necessario per vivere (a quell’epoca) e il fascino dell’artista che usava matite in luogo del ferro da stiro, pennelli in luogo degli uncinetti, il cui piano di lavoro era una tavolozza carica di colori da sogno.   Uscivano a mangiare insieme, e Giorgio beveva quei momenti a intense sorsate; le tracciava in fretta resoconti di interrogazioni e ritratti di amici, aspettando che venisse il momento in cui lei parlava del suo lavoro, del restauro di una tela o della progettazione di un’elica d’aereo nei laboratori di Predappio; allora l’ascoltava mentre l’immaginazione correva a luoghi distanti pochi chilometri ma lontani come mondi esotici.

 

Diplomato, frequentò le scuole superiori a Milano (l’Istituto Tecnico Commerciale a indirizzo amministrativo Vittorio Alfieri), dove ottenne nel giugno del ’47 quella che all’epoca si chiamava Abilitazione a Ragioniere e Perito Commerciale.

Nel frattempo erano trascorsi anni che valevano una vita, si erano succedute esperienze che avrebbero segnato il suo futuro.   La guerra, prima di tutto, come per tutti.

 

 

 

La Sisa

(la prima esse si legge decisa, la seconda più sottile)

 

Nel ’43 la madre aveva aperto una galleria d’arte a Rimini, nella centrale via Gambalunga, con buone prospettive per il futuro; le testimonianze fotografiche e gli elenchi dei quadri ospitati sono eloquenti.  Ma l’edificio, con tutte le opere in esso contenute, fu centrato durante un bombardamento a pochi mesi dall’inaugurazione, gettando Gianna nella disperazione. Avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo; ma almeno, questa volta, con il figlio accanto.

Giorgio nella primavera del ’44 risiedeva come sfollato alla Sisa, la tenuta poco lontana da Forlì nella quale sorgeva la villa, ormai saccheggiata e semidistrutta, che era stata del poeta Antonio Beltramelli.  Là qualche anno prima Gianna aveva svolto opere di decorazione, divenendo amica della moglie e della sorella di Beltramelli, ed ora aveva affidato a quell’ospitalità la sicurezza del figlio, nei mesi in cui l’Istituto milanese era chiuso.  Alla Sisa Gianna lo raggiunse e visse accanto a lui qualche settimana di serenità.  In quel periodo vi si trovava sfollato anche Maceo Casadei, un pittore di grande talento e di qualche fama, fotografo di guerra che aveva vissuto, e raccontava, avventure terribili e fantastiche nella guerra d’Africa.  Maceo riuscì là dove Gianna aveva fallito, cioè nell’aprire Giorgio ad un mondo sconosciuto, quello dell’arte: trascorreva con lui lunghe ore insegnandogli tecniche e trucchi del mestiere, il gusto per le opere pittoriche del passato e per gli ambienti affascinanti della pittura parigina, ambienti che conosceva molto bene.  E Giorgio maturava quell’impulso a disegnare, a dipingere senza timore del colore, ad interpretare la realtà con uno sguardo che avrebbe poi affinato col tempo e nel tempo mai avrebbe abbandonato.

Visse in quel periodo anche la paura.  All’avvicinarsi del fronte, i tedeschi operarono nella zona rastrellamenti a tappeto.  Durante uno di questi venne catturato con altri giovani e fatto salire su un camion diretto ai campi di concentramento in Germania.  Maceo allora, rendendosi conto del pericolo, si espose in prima persona e riuscì in qualche modo, nel suo francese perfetto, a convincere il comandante della pattuglia a rinunciare a quel carico. Forse dovette consegnargli in cambio tele e disegni. Sul principio dell’autunno fu Maceo ad essere arrestato.  Lui ed altri compagni erano stati imprigionati e condannati all’impiccagione, e pareva non vi fosse alcuna speranza di salvarli.  Fu Gianna, allora, spinta anche dal recente debito di riconoscenza, che rischiò la vita recandosi nel luogo in cui Maceo era detenuto.  Una lunga trattativa con gli ufficiali tedeschi e riuscì a “comprare” il trasferimento dei reclusi in un ospedale militare in cambio di tre quadri.  Durante quel trasferimento, che lei stessa seguì con Giorgio, con la complicità di un ufficiale riuscì a farli fuggire e tutti insieme tentarono di raggiungere Cesena, già liberata dagli alleati, attraverso campi e boschi.  La notizia della liberazione di Forlì li raggiunse quando ormai le speranze di salvezza erano ridotte al lumicino.

Giorgio era improvvisamente cresciuto.  L’incontro con l’arte, la paura, le avventure i cui eroi erano le persone che aveva accanto, avevano impresso una svolta brusca e luminosa alla sua vita. 

 

 

La goliardia, la conquista del mondo

 

Quando tornò a Milano trovò una metropoli in festa, che viveva l’indicibile euforia della fine di un incubo; nel corpo l’energia di un diciottenne, nella mente una profonda sete di esperienze, visse ogni giorno come un sogno.

Il 10 luglio, ottenuta l’abilitazione, si trasferì a Forlì, dove già da qualche tempo la madre aveva preso in affitto un appartamento in Via Giorgio Regnoli, ma continuò a respirare gli ambienti culturali e goliardici milanesi, frequentando per tre anni, anche se saltuariamente, la Bocconi.

Milano era per lui la bohème, fatta di artisti, di cantine dove si tirava tardi ascoltando del buon jazz e leggendo le poesie di Dylan Thomas, di Lorca, di Prévert.   In camera con i fratelli Fo, fumava dischi di Chet Baker e di Charlie Parker, leggeva la letteratura di una generazione cui il crollo della cultura di regime apriva orizzonti sconosciuti e inattesi, ballava l’America e disegnava su qualunque foglio.  Non credo avesse il tempo di studiare veramente.   In quegli anni si immerse in un mondo culturale fertilissimo e su esso modellò il proprio modo di pensare e di vedere.

Per questo Giorgio Spada nacque nel 1947, a vent’anni.

 

Non perse comunque il contatto con la realtà. La madre non aveva un reddito costante e Giorgio cercò subito di trovare un lavoro.  Rimediò qualche incarico di rappresentanza o di contabilità presso privati, poi un impiego stabile nel settore amministrativo dell’Eridania tra il 1948 ed il ’50, altri incarichi negli uffici dell’Associazione provinciale artigiani.  Contemporaneamente seguiva i corsi dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna (tre sessioni, sempre tra il ’48 e il ’50).

Appena poteva riempiva cartoncini o tavole di faesite, che a volte usava da entrambi i lati, di nature morte, piccoli ritratti, vasi di fiori e paesaggi.  Vi si leggono ancor oggi l’influenza e il consiglio di Maceo e della madre, ma anche la volontà sempre più forte di svincolarsi da ogni influenza. Le prime tavolozze si incrostavano di colore, le prime mostre collettive ospitavano il suo nome tra quelli dei partecipanti.

 

Ho trovato un elenco, compilato con mano elegante da mia madre su fogli da computisteria, nel quale figurano i quadretti ad olio dipinti tra il 1946 e il 1951 grazie ai quali erano stati vinti premi o guadagnate segnalazioni.  Sono singolari i giudizi, ritengo dettati da mio padre stesso, scritti tra parentesi quadre accanto al titolo : buono, discreto, abbastanza buono, non risolto il fondo, decente.  Vi si legge, ad esempio, che nel 1946 un “Paesaggio marino” era stato classificato al Concorso di Cervia, un’estemporanea vinta ex aequo da Maceo e Cremonini; che nel 1947 una “Natura morta con bricco” era stata esposta a Venezia ed aveva avuto giudizi favorevoli da Luigi Servolini, Teodoro Orselli, Gino Mandolesi; che un’altra natura morta, dipinta nel ’47, era stata esposta poi nel ’51 in una mostra a Massalombarda, curata da Carlo Carrà e Giacomo Manzù, accanto ad opere di Margotti, Salietti, Servolini, Folli, Cervellati. Un appunto sottolineava che l’olio era stato donato al padre nel 1952.  Nel 1949 una “Natura morta con limone ed uva” era stata donata alla Pinacoteca di Forlì “...ove oggi 31 agosto 1953 risulta tutt’ora esposta”. Un ritratto della madre poi, nel 1952, era stato acquistato dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi dietro segnalazione di Felice Casorati.

 

La natura morta regalata al padre.  Mario viveva ormai da molti anni a Roma, dove aveva una sua famiglia, ma tornava in Romagna, di tanto in tanto, per rivedere il figlio, soprattutto ora che questi stava contribuendo alla nascita di una famiglia nuova.  Giorgio aveva conosciuto Guglielmina, un carattere dolce e sereno, un diploma da maestra nel cassetto e un mandolino sulla scrivania, la Guglielmina con cui leggeva gli struggenti versi di Prévert camminando lentamente tra via Porta Merlonia e il Vicolo Faliceto, così bella ai suoi occhi da non riuscire mai a fare di lei un ritratto che lo soddisfacesse, per quanto vi avesse provato più volte.

La minuscola fotografia che negli ultimi anni teneva nello studio, sull’anta dell’armadio, appoggiata al lembo superiore di una cartolina che ritraeva Picasso e Chagall insieme, era della Guglielmina di quel periodo.  Rideva, ridevano Picasso e Chagall in quella composizione nella quale forse Giorgio aveva voluto racchiudere il senso di una vita.   

Non parlerò oltre del rapporto tra mio padre e mia madre; appartenne ed appartiene solo a loro.  Dirò soltanto che la scelta fatta in quel momento fu consapevole e definitiva, tale da proiettare qualsiasi altra cosa in secondo piano.  Arte compresa, se mai l’una avesse posto dei limiti all’altra.

 

 

 

Come una mattina di maggio

 

Tra il 1947 e i primi anni Cinquanta entrò nel variegato ed affollato mondo dei pittori romagnoli.  Un mondo in ebollizione, che ruotava intorno ad una girandola di mostre collettive, premi, concorsi.   Muovendo i primi passi cercò subito di svincolare la propria personalità da quella della madre, troppo nota sia come artista che come organizzatrice e spesso presente nelle giurie dei concorsi, evitando per quanto possibile le manifestazioni artistiche nelle quali ella fosse coinvolta oppure, come nel caso della Biennale Romagnola d’Arte Contemporanea, dalla madre fondata e coordinata, presentandosi regolarmente “fuori concorso”.  Nel dipingere, tentò di affrancare il proprio stile da quello del maestro sperimentando nuovi percorsi, affidandosi ad una pittura tonale o ad interpretazioni non descrittive dei paesaggi.  In entrambi i casi il distacco non fu facile e in più occasioni il suo nome comparve accanto a quello di Gianna Nardi Spada nelle mostre collettive, così come molti suoi quadri recavano inconfondibile l’impronta della forte personalità di Maceo.

Le prime soddisfazioni del tutto personali comunque non tardarono.

I.B. espone un paesaggio buttato giù con bella facilità, mentre E.P., riconoscibilissimo, esce appena dal bozzettino, che tuttavia è piacevole, nonostante qualche indulgenza alla bravura della spatola che fa i giochi con la biacca.  L.P. ha dei grandi acquarelli, irrimediabilmente cartolineschi. ... A.C., che dopo una fugace cotta di esperimenti modernisti è tornato alla sua vecchia maniera, espone dei ritratti seri, i quali pure non uscendo dal superficialismo manierato di quella pittura che fa dire “sembra vero”, denunciano una mano facile e un disegno abile.  Renato Degidi ha il bozzetto di una crocifissione tutto caldo di suggestione e Giorgio Spada, un ragazzo che ha appena cominciato, una marina di Cervia squillante come una mattina di maggio ...C’è poi A.S., con quadri modesti ma sinceri, ci sono le statue di B. e un brutto paesaggio alpestre di M. ... D.B. fa molta messa in scena, la sua roba è tuttavia povera e anche B. nella natura morta è molto gratuito. ...

Capitava ancora, a quell’epoca, che qualche critico facesse il critico.  Così in un articolo apparso sul Littoriale del novembre 1948 (titolo “Tradizionalisti e ribelli alla Mostra d’Arte”) Aglauco Casadio sparava a zero sui partecipanti ad una mostra collettiva tenutasi a Forlì, nella Sala del Bibiena in Municipio.   Nell’animo di Giorgio, vedersi risparmiato da quella esecuzione sommaria ed anzi elogiato là dove pittori più anziani e più noti di lui venivano strapazzati, dovette suscitare un certo orgoglio e una pulsione a gettarsi con maggiore convinzione nella mischia.

Giorgio d’altronde non mostrava soggezione dei nomi che gli si affiancavano nelle mostre e nei concorsi d’arte ed anzi cercava di stringere una rete di relazioni e di amicizie che favorissero il confronto, che gli permettessero di prendere contatto con altre tecniche espressive per affinare la propria fisionomia.  I lavori di quel periodo mostrano un’esplorazione continua e la volontà di acquisire al meglio la tecnica e la familiarità con i materiali del dipingere.

Monsieur Giorgio Spada ... Signor, saremmo felici di consacrarvi un articolo critico nel reso-conto che ci proponiamo di pubblicare sulla Mostra della frutta nell’arte di Massalombarda.   A tale scopo e per completare la nostra documentazione, ci stimeremo fortunati di avere qualche note sulle vostre tendenze, che potrete utilmente completare con fotografie o stampe.”  Era la Revue Moderne Illustrée des Arts di Parigi che scriveva il 16 ottobre 1951.   Non so cosa mio padre mandò a Parigi in quell’occasione, né se mandò qualcosa, ma mi par di vedere il luccichio negli occhi alla lettura di quella breve nota.   In quella mostra (in giuria figuravano tra gli altri Carlo Carrà e Giacomo Manzù) aveva esposto accanto a Bartolini, Buscaroli, Maceo, Cervellati, Folli, Margotti, Pazzini, Ruffini, Servolini, Verlicchi.

 

Outsider alle prime Biennali Romagnole d’Arte Contemporanea (Forlì 1951 e Imola 1953), presto cominciarono a giungere inviti a premi e mostre da fuori regione.  Stava vivendo in pieno una delle più belle e prolifiche stagioni del mecenatismo istituzionale del dopoguerra.

 

 

Poco più che un ragazzo

 

Il 1954 fu un anno denso di soddisfazioni.  La crescente fiducia in sé stesso, alimentata dai consensi riscontrati e dalla percezione di un interesse sincero che la sua pittura suscitava in molti osservatori, lo spinse ad affrontare la prova delle esposizioni personali.  Con gradualità.  Nel gennaio una mostra a quattro “... nel nuovo fabbricato della ditta Manoni in via delle Torri” con Leonida Brunetti, Maceo Casadei e Gino Mandolesi.

Giorgio Spada, il più giovane degli espositori, annuncia nei suoi oli e cartoni per mosaico eccellenti possibilità, estro effervescente e sensibilità al colore” - Il Pensiero romagnolo

“... E’ venuto il momento di parlare del più giovane espositore, lo Spada, che è poco più che un ragazzo.  Egli presenta una buona efficacia rappresentativa ed un certo possesso della tecnica del colore.  Interessanti il ritratto di donna, alcuni suoi fiori ed una natura morta.  Si tratta di un giovane che merita incoraggiamento e del quale forse sentiremo ancora parlare” - L’Avvenire d’Italia

 

Poi un’esposizione con Maceo a Ravenna, nell’aprile.  E già in ottobre una mostra da solo, a Forlì.  La prima vera personale.

Tra i molti articoli di giornale, sfrondate le formule di rito e le frasi un po’ fatte di certo giornalismo di provincia, rimangono appunti che lo accompagneranno lungo tutto il suo percorso artistico : “... vede il colore e lo traduce ...”, “... le espressioni visive non fotografano, ma interpretano una realtà ...”.  Ma, soprattutto, c’è un termine che singolarmente ricorre in due articoli diversi, su due diversi giornali, un’espressione che raramente viene utilizzata nella critica d’arte e che, al di là della coincidenza, raramente viene intesa con un’accezione positiva : “ la sua pittura è fresca ed onesta.” e “traduce ciò che l’ha ispirato con coerenza, onestà ...”.  Quel termine dovette rimanere impresso nella sua mente; molti anni dopo, in un’intervista rilasciata ad una televisione locale, all’ultima domanda del giornalista che gli chiedeva cosa avrebbe voluto che i posteri dicessero di lui, rispose: “Dipingeva onestamente”.

Oggi definire un artista “un onesto pittore” assume facilmente una connotazione negativa, quasi ad assimilare la sua creatività ad una sorta di artigianato, ma in quel caso il concetto di onestà identificava la volontà di fare arte per fare arte, senza fini utilitaristici, opportunistici, di facciata.  La cosa che mio padre più avversava era il fermarsi ad un dato traguardo, l’insistere su moduli e forme di facile presa e di assodato successo per costruire una fortuna di tipo economico o rispondere a suggestioni di tipo narcisistico.  Per questo cercò sempre.  Per questo rimise sempre in discussione ogni progresso, non appena si rendeva conto che esso generava formule di comodo; allora  cambiava del tutto direzione o, più spesso, tornava alla palude, il soggetto che più si prestava a distruggere e a suggerire.  Già in quegli anni Cinquanta spiazzava gli osservatori alternando nature morte a vasi di fiori, marine descrittive e ritratti realistici a lembi informali di palude.  Già in quegli anni apparivano tra l’erba rifiuti e sterpi indistinti.  Mondi da esplorare.

La sua pittura si affinava, il confronto con altri pittori gli permetteva di prendere le misure con tecniche espressive diverse da quelle che avevano costituito il primo impatto con la dimensione del colore.   Cresceva: ogni mostra, ogni premio, ogni collettiva era una sferzata di energia.  Leggeva e rileggeva le immagini, spesso in bianco e nero, dei libretti d’arte contemporanea che Maceo acquistava in Francia e gli passava.  Con la stessa avidità beveva letteralmente i grandi cataloghi d’arte ricchi di riproduzioni a colori da Matisse, Renoir, Cézanne, Picasso, ma anche i repertori della pittura fiamminga, dell’astrattismo e dell’Ukyo-e.  Non c’era voce che non ascoltasse.

 

La mia, di infanzia, è stata felice.  L’intensa attività di mio padre non era in contrasto con il suo essere presente.  Fino al ’61 abitammo in via Giorgio Regnoli, in un appartamento nel quale studio e abitazione erano un insieme indistinto. E il bagno, se così si poteva chiamare, era fuori, in terrazzo. Mia nonna dipingeva in un suo spazio, mia madre condivideva con mio padre ogni suo quadro e nelle narici mi si mescolavano gli odori delle torte nel forno e quello dell’acquaragia.  L’una mi leggeva le strisce del Corriere dei Piccoli e l’altro mi raccontava le immagini di Bruegel, i sogni di Mirò, gli incubi di Bosh.  Come fossero favole.

Anche dopo il nostro trasferimento in via Torricelli, quasi in campagna, nel ’61, il clima non cambiò.  All’uscita dal lavoro (mio padre era ragioniere alla Sita, mia madre lavorava in Provincia) passavano a prendermi da casa dei nonni materni e non c’era serata nella quale non si trovasse qualche ora da dedicare al gioco.  Giorgio dipingeva di sotto, in un garage che ormai non poteva più dirsi tale, visto che la macchina aveva dovuto cedere il posto ai cavalletti e alle tele. All’ora di cena mia madre andava in un punto preciso della sala e picchiava tre volte con il piede per terra.  Da sotto proveniva il rumore di una porta che si chiudeva, per riaprirsi spesso quando per me era ormai ora di andare a letto.

 

La sensazione dell’entusiasmo che contagiava i pittori di quella generazione si avverte ancora sfogliando le foto scattate alle estemporanee.  Gli alberi costellati di tele al Campigna, i giovani intenti a discutere intorno ai quadri, i cavalletti sparsi nella pineta di Marina di Ravenna.  Si formavano gruppi che affrontavano con spirito più goliardico che competitivo le occasioni che fiorivano un po’ ovunque.  E lo facevano spesso insieme, creando legami di amicizia che la comune passione rendeva ancora più saldi.

Altre foto: quelle delle inaugurazioni di personali.  Il Sindaco, il Vescovo, i colleghi d’ufficio, qualche abituè ... e poi a sostituire sempre più spesso le autorità compassate e inamidate un gruppo di volti giovani, che ridono l’uno dell’altro o scherzano su un quadro o su una cornice.  Cominciano a comparire Vito (Montanari), poi Mario (De Fanti), Sergio (Camporesi), Ulisse (Bugni), Angelo (Ranzi) e tra loro Maceo e Cantagalli.   Con loro si festeggia al termine delle premiazioni, con loro si discute in macchina, cinque in una Seicento tra cavalletti pieghevoli, tele e scatole di colori, al ritorno da un’estemporanea.

Nelle opere di Giorgio Spada è palese l’urgenza di vivere l’Arte per sé stessa

“... Tutto delinea un carattere di vigore spirituale e di personalità eccezionale - da non confondersi con preferenze e predilezioni di moda - ma da inserirsi nel settore della vera pittura.”  (Il Pensiero romagnolo, 1962)

Le mostre personali si succedono a pieno ritmo.  Nei primi anni Sessanta non rappresentano tanto, o soltanto, un modo per proporre le proprie opere al pubblico, quanto piuttosto un pretesto per incontrare altri pittori, per discutere, per spiegare agli altri e a sé stessi il senso del fare pittura.  Nel caso di Giorgio, anche un modo di chiudere un capitolo e affrontarne l’evoluzione o, meglio, tentare strade nuove.

Dopo un anno circa dall’ultimo incontro troviamo un Giorgio Spada così mutato da quasi non credere ai nostri occhi ... Nel suo fraseggiare intimistico la tavolozza di Giorgio Spada tutta è colore” (Il Resto del Carlino, 1962)

Man mano che i soggetti perdono nitidezza e descrittività si fanno più intense le sensazioni che le tele riescono ad ispirare.  I commenti degli addetti ai lavori, che con entusiasmo si soffermavano in un primo tempo sulle capacità tecniche, sull’uso del colore, sui significati suggeriti dai soggetti, ora spostano la loro attenzione sulle atmosfere, sull’impatto emozionale.

Nella pittura di Giorgio Spada il colore diviene musica, netta, rigorosa, reale ed astratta come certe adamantine pagine di Mozart.”  (Il Resto del Carlino, 1964)

Giorgio Spada, il pittore delle paludi, coglie fra terra e cielo rime e accordi d’alta armonia”   (Il Resto del Carlino, 1965)

In pochi anni il mutamento è radicale ed anche Giorgio se ne accorge.  Nulla rinnega della pittura degli anni precedenti, ma nulla concede al coro dei nostalgici delle prime forme, paesaggi, paludi, nature morte, pur lasciando che esse rappresentino ancora il nodo delle proprie tematiche.  E’ tempo di lasciare spazio a nuove esigenze, anche a prezzo di un più difficile approccio con il pubblico.

E’ lui stesso a scriverlo, in un articolo apparso nel 1962 su Il Pensiero romagnolo e dedicato ad una mostra di Vito Montanari, il più intimo tra gli amici di quel periodo.  Parla di Vito, ma parla anche di sé :

« Frainteso » ... Tanti grideranno all’astratto, - e l’errore li indurrà a disconoscere l’essenza del contenuto - altri, sforzandosi di ravvisare in una forma qualcosa di fotografico, perderanno l’opportunità di gustare gli elementi che concorrono a darne il sapore, l’ambiente.   Il suo intento è quello di ogni artista : estrarre un brano di poesia da ogni episodio della vita che ci circonda. ”    E ancora : “ ... a volte è sufficiente appoggiare una conchiglia all’orecchio per avvertire anche la brezza del mare nelle narici, la sabbia ruvida lambita dalle piccole onde della riva.

Una recensione che pare quasi la dichiarazione di una poetica.

 

 

Quasi un divertimento

 

Il 1966 vide una svolta radicale nella sua pittura.  Fu come una sfida, lanciata da un critico d’arte del calibro di Marcello Azzolini.  Un gruppo di pittori, peraltro nutrito (tra quelli che riconosco, con l’aiuto di alcune fotografie, vi sono Sergio Camporesi, Vito Montanari, Mario De Fanti, Angelo Ranzi, Nico, Del Zozzo,...), accolse l’invito di misurarsi con una forma espressiva che mai prima avevano sperimentato : il collage.   Era una provocazione, forse un gioco, che Azzolini intese proporre per far sì che ognuno tentasse di sviluppare la propria poetica al di fuori di quella che poteva essere una maniera consolidatasi nel tempo.  I lavori venivano poi mostrati, discussi, sezionati nel corso di serate che si svolgevano alla Colombaia, un ristorante di prima collina.

Giorgio entrò in quel gioco, che conduceva in fondo a tentare una scomposizione ed una reinterpretazione della realtà, non con lo spirito di chi acquisisce semplicemente una nuova tecnica, ma con l’entusiasmo di chi vede aprirsi una nuova strada, pericolosa ma affascinante.

Sfogliò e dilaniò riviste, compose brani di fotografie e pure note di colore, soffermandosi a volte nel divertimento, cadendo spesso nel troppo esplicito e spesso nell’astratto, finchè non trovò una sua dimensione, un’essenzialità che poco aveva da invidiare alla pittura tradizionale.   E raggiunse quella sintesi che lo convinse a provocare, a sua volta, il pubblico.   Nel maggio di quell’anno allestì una mostra destinata a prendere alla sprovvista molti, a contrariare altri, ma che colpì nel segno.  Bruna Solieri Bondi, generalmente entusiasta dei suoi lavori, scrisse sul Carlino : “La saletta USAIBA /quella di via Giorgio Regnoli/ ospita la più recente produzione del pittore Giorgio Spada.  Si tratta di “collages”, composizioni che possono risultare anche piacevoli come graduazioni cromatiche, ma che lasciano il tempo che trovano, perché non vanno al di là di una sperimentazione, quasi un divertimento, un gioco, forse anche polemico.  E poiché il gioco è bello quando dura poco, noi pensiamo che Gorgio Spada torni presto alla sua qualificata tavolozza ed ai ferri tradizionali del mestiere”.

Se c’era una cosa che mio padre non sopportava era che si definisse la sua tavolozza con aggettivi come “qualificata” o “esperta” o “tradizionale”.  Lo avrebbe capito la Solieri se avesse potuto prevedere la sua produzione successiva, nella quale quel gusto della scomposizione sarebbe stato riproposto a più riprese, influenzando anche il modo di dipingere una palude, o una natura morta.

Lo comprese invece Ugo Dal Pozzo che, con grande lungimiranza, scrisse : “Una tappa piuttosto felice ci pare questa, che probabilmente condurrà l’artista ad uno spostamento di accento formale scoprendo gli interessi che sono stati da sempre alla base della sua concezione pittorica ... un nuovo passo verso un’arte sempre più sincera.”

E la sua pittura effettivamente cambiò.  Il consenso lo interessava sempre meno, perdeva importanza col crescere del bisogno di confronto.  Non era e non voleva essere un pittore “di rottura”, come all’epoca molti amavano definirsi, ma sentiva il fascino di quei sentieri che apparentemente lo portavano fuori dalla via maestra, ma in realtà aprivano parentesi che si sarebbero presto richiuse lasciandolo arricchito.

Cambiò di nuovo nel ’68.  Lo conferma un suo breve scritto contenuto nel catalogo di una mostra collettiva, condivisa nella Galleria Mantellini con gli amici di sempre : Ulisse Bugni, Sergio Camporesi, Mario De Fanti, Vito Montanari.

 

La presenza di acqueforti accanto ad un solo quadro può sembrare una ingiustificata evasione nel contesto della nostra mostra.

Non ho rifiutato la pittura.  Sono però stato affascinato da questa nuova esperienza espressiva e non si è trattato soltanto di un apprendimento tecnico.  Mi pare invece d’aver messo a punto una mia nuova dimensione, anche per i quadri di domani.

Ho riallacciato altri fili col mondo che mi è sempre stato congeniale e proprio la necessità del “filo dell’incisione” mi ha aperto uno spiraglio che reputo se non nuovo (ma che cosa è veramente nuovo ?) certo importante nella mia storia di uomo-pittore.  In ogni caso posso affermare che la scoperta dell’acquaforte mi ha costretto a rifare molti conti con me stesso e coi miei miti e questo, per il momento, è il mio risultato.

 

Stava cercando e lo faceva proprio nel momento in cui molti avrebbero preferito che si fermasse a perfezionare quei toni e quei soggetti grazie ai quali solo fino a un paio d’anni prima aveva catturato interessi e simpatia. 

Confronto, non consenso.   Il rapporto con gli amici andava ben oltre la semplice frequentazione.  Era una molla indispensabile di quell’evoluzione che colse anche l’estensore delle poche righe di presentazione ad una mostra tenuta con altri pittori romagnoli alla Galleria Indipendenza di Bologna, nel dicembre 1968 : “ ... La consapevolezza di quel che “non” voleva essere lo ha portato a cercare anche fuori del “suo contesto” come suggeriscono oggi le sue incisioni.  L’amicizia e il legami con altri artisti forlivesi sono stati evidentemente qualcosa di più di semplici incontri tra colleghi.”

 

In quel periodo la nostra casa era un porto di mare.  Mario De Fanti che veniva a “fare un saluto” e subito cercava con gli occhi la bottiglia di grappa e un quadro da guardare.  Ostentava voce e modi burberi ma la trasparenza degli occhi rivelava un carattere buono e timido.  Vito che irrompeva in casa, frantumava le ossa mie e di mia madre in un veloce abbraccio e si immergeva subito nella nuvola di fumo che aleggiava nello studio, sormontando con la voce il parlottare tranquillo di mia madre e della Lida.  Compagno di tante estemporanee, viaggi e discussioni, tra Vito e mio padre non c’era mai un momento di silenzio.  Poi c’era Sergio.  Come invidiavo il modo di accendere e di gustare la pipa di Sergio!  Il suo fascino da gentiluomo inglese era un tutt’uno con il dono del racconto.  Aveva sempre una storia da narrare; quando lui e Maceo si incontravano casualmente nella nostra sala restavo sempre nei paraggi, perché non c’era film d’avventura che reggesse il confronto con i loro ricordi.  E Ulisse.  Ulisse era un distinto giocherellone.  Aveva un modo stranissimo di scherzare e passava dalla battuta alla serietà con velocità sorprendente. 

Tutti diventavano seri nel momento in cui decidevano di parlare di pittura ed erano capaci di trattenersi per ore intorno a un quadro. Oppure scendevano nello “studio” e quasi mi stupivo, la mattina, nel vedere che durante la notte, ad un’ora o ad un’altra, se ne erano andati.

 

Nel 1968 Giorgio conseguì il Diploma di decorazione pittorica all’Istituto d’Arte di Forlì.  Nel 1971 avrebbe ottenuto l’abilitazione all’insegnamento del disegno. Perché?  A quarantuno anni non ci si mette in discussione se non si hanno forti motivazioni, soprattutto se si ha una famiglia, un lavoro sicuro, una carriera artistica che non necessita di alcuna conferma formale e che anzi rischia di subire rallentamenti dal tempo dedicato allo studio.  E ricordo che passava serate intere a studiare con Antonio Giosa, con Nico e con altri e intere nottate a riempire fogli e fogli di tavole di disegno geometrico e progetti architettonici.   Evidentemente era forte il desiderio di insegnare da un lato, di dare un ordine al proprio gusto dall’altro.

Quell’esperienza fu comunque importantissima.  Non si sta mai a contatto con i giovani senza risultato.  Lo studio fu un’occasione per confrontarsi con persone con le quali non aveva condiviso il percorso compiuto fino a quel punto, ma che ne stavano iniziando uno proprio, arricchito da motivazioni che in quegli anni fermentavano nel mondo giovanile in modo del tutto affascinante.  In quello stesso periodo venne a contatto con altri giovani nel contesto delle Biennali Romagnole e degli altri concorsi cui partecipava regolarmente, come il Campigna e il Marina di Ravenna: tra loro rimase colpito dalla facilità e potenza di segno di Daniele Masini, con il quale avrebbe in seguito mantenuto un’amicizia e proseguito un dialogo artisticamente fertile e stimolante.  Questi contatti portarono nuova linfa alla sua ricerca, che già era stata arricchita dall’esperienza-sfida del collage e di Azzolini e poi dalla misura dell’acquaforte e del segno puro.

 

Arte perchè

 

Nel frattempo l’abilitazione, se non gli era valsa una cattedra per l’impossibilità di inserirsi nel mondo incostante ed incerto delle supplenze, gli aveva fruttato almeno frequenti convocazioni nelle giurie dei concorsi su segnalazione del Ministero per i beni culturali.  Erano concorsi per opere di abbellimento artistico di edifici pubblici, per acquisizione di opere da parte delle pinacoteche e così via, banditi in parte in Romagna, in parte in Veneto e nel Trentino.  Si trovò accanto a nomi prestigiosi della pittura contemporanea, per così dire dall’altra parte della barricata.  Un giro di boa, per certi versi, in quanto per alcuni anni si trovò a giudicare e ad essere giudicato, potè scambiare opinioni e sensazioni con critici esperti da un lato e con giovani alle prime armi dall’altro.

Certamente fu acuita l’esigenza di affiancare ad una produzione basata in gran parte sulla sensibilità e sul gusto personali un approfondimento dei temi e degli aspetti speculativi del fare arte, dando inizio ad una fase improntata alla ricerca di una forma che coincidesse con un senso.   Fu così che prese corpo, da questa esigenza e da esperienze simili alla sua, una delle più interessanti iniziative di quel periodo (e a guardar bene, almeno per la realtà forlivese, dei periodi successivi fino ad oggi).  Tredici artisti nel gennaio 1972 allestirono un’esposizione di loro quadri nel Salone Comunale e proposero alla città di essere non tanto spettatrice, quanto partecipe attiva della mostra.

Un manifesto con la data e il luogo della mostra sarebbe anche bastato.  Magari l’elenco dei nomi, per chiarire la legittima paternità delle opere esposte. Poi la storia di sempre, dall’apertura al giorno in cui si staccano i quadri e si torna a casa, non diversi da prima, né gli artisti né coloro che han visto e ovviamente apprezzato le loro opere.   L’arte ha imparato, dalla città e dalla sua legge quotidiana, questa pazienza estrema della routine ...

Proponevano in sostanza la conquista di un rapporto nuovo tra chi fa e chi riceve l’arte, tra la città e i suoi artisti.  Con una premessa come questa si superava di fatto ogni intento commerciale.   Francesco Bertaccini, Ulisse Bugni, Sergio Camporesi, Mario De Fanti, Gino Del Zozzo, Antonio Giosa, Mauro Maltoni, Vito Montanari, Roberto Prati, Carmen Silvestroni, Giorgio Spada, Paolo Versari, Silvano Zanatta scendevano dal piedistallo, rompevano simbolicamente il vetro di ogni vetrina e si mescolavano tra il pubblico, alla ricerca di un dialogo.  Fare arte non significa ancora darle vita.  La vita di un’opera è un atto continuo di creazione collettiva, possibile solo quando vi sia corrispondenza profonda e autentica volontà di cultura.  Non presumiamo di averla, vi chiamiamo a cercarla con noi.

 “Arte perché, arte per chi” fu un’esperienza forte ed entusiasmante, alla quale Giorgio partecipò con impeto.  Nella propria presentazione scrisse: Dalle paludi di casa i termini di un primo, arcaico discorso.  Adesso ci sono brandelli di un altro paesaggio, le inquietudini suggerite dalle contraddizioni del mondo moderno, avvertite non come uomo a caccia dell’avanguardia, ma semplicemente partecipe del suo tempo.

Era un invito (o forse un monito).  Un invito che significava: non accostatevi più ai miei lavori cercando la godibilità dei toni e l’armonia dei colori; non sono più soltanto il “pittore delle paludi”, ma un pittore che sta cercando dimensioni e significati; se vorrete leggermi dovrete pensare.

E presentò, in quell’occasione, quadri come “Potere industriale”, “Cose dimenticate in soffitta”, “La sposa infedele”.

 

 

Lo spiritello suadente

 

Nel dicembre 1973, presentando una collettiva a sei alla Galleria Permanente di Cesena, Raffaele De Grada individuava quella che secondo lui sarebbe stata la naturale evoluzione della pittura di Giorgio :

“... ci dà atmosfere filtrate, assai nostalgiche di una vita che si sta spegnendo in gruppi di foglie e tovaglie ... sempre con la tentazione dell’ “informale” che aleggia dentro, come spiritello suadente”.

Sembrava che la sua pittura si trovasse ad un crocevia, come se lui stesso esitasse a scegliere quale dovesse essere il suo linguaggio: sopravvivevano, ma sempre più raffinate, le atmosfere delle paludi cui si affiancavano i collages concepiti come distruzione e creazione della realtà, poi le composizioni pittoriche, sempre meno realistiche, che sintetizzavano e completavano la suggestione dei collages; cominciavano a prendere corpo e spessore i giornali accartocciati e contemporaneamente spuntava a tratti una pittura più leggibile, forse troppo leggibile (lui stesso la definiva “letteraria” e avrebbe in seguito ridimensionato alcune di quelle esperienze pittoriche, pur senza rinnegarle) dettata dall’attrazione esercitata dall’impegno verso tematiche di tipo sociale.  D’altronde erano gli anni dell’attenzione verso gli ultimi sussulti della guerra in Vietnam, verso l’opposizione al regime dei colonnelli in Grecia e a quello di Pinochet in Cile. 

 

Per quanto non ne condividesse tutte le sfumature, Giorgio amò il Sessantotto e la sua eredità.  Ricordo che cercava di intavolare discussioni con i miei amici per meglio comprendere il nostro spirito e con i propri, di amici, per coinvolgerli in iniziative di rottura e di denuncia.  Ricordo anche come cercasse di assimilare i miei gusti musicali, accantonando, ma solo in parte, il suo vecchio amore, il jazz, per aprirsi a Bob Dylan, ai Pink Floyd, a David Crosby, a Simon & Garfunkel, a Soft Machine, a Julie Driscoll, a Joni Mitchell (cito questi nomi perché volle comprare copie di alcuni loro album, nonostante già io le avessi, per poterli ascoltare in tutta libertà mentre dipingeva, nell’appartamento-studio che in quegli anni condivideva con mia nonna).   Così alternava le chitarre di CSN&Y alla tromba di Dizzy Gillespie, le atmosfere rarefatte di Ummagumma alle atmosfere rarefatte di Chet Baker.

 

 

Questi segni tracciati sulla carta per il Cile lontano

alla bestia dell’odio danno un’anima”. 

Era il febbraio 1974.  L’esperienza di “Arte per il Cile”, seguita ad altri interventi dell’attivo gruppo di artisti in favore dei Comitati per la lotta contro la fame nel mondo e dei Comitati a sostegno della popolazione vietnamita, fu coinvolgente e molto più complessa di quanto apparve all’epoca sugli organi di stampa.  Fu preceduta da un periodo di incontri e di approfondimenti, così come anche la cartella di litografie che fu prodotta per iniziativa di Neo Bertaccini e di Andrea Brigliadori fu il risultato di un lungo lavoro di confronto, di selezione e di elaborazione delle tavole.

Ulisse Bugni, Sergio Camporesi, Roberto Casadio, Daniele Masini, Vito Montanari e Giorgio Spada presentarono i loro lavori, riuniti in una cartella all’interno della quale erano preceduti da una poesia di Andrea Brigliadori, nella Sala Albertini il 28 febbraio.

Tra i mucchietti di copie delle litografie e serigrafie che mio padre aveva poi fatto stampare anche in seguito era conservato un grande fascicolo che conteneva le prove di stampa precedenti quella stesura finale.  Non solo le sue.  Decine e decine di cartoni che erano stati utilizzati a uno o più colori e a più riprese, nei quali le prove dell’uno si sovrapponevano a quelle degli altri con effetti imprevedibili, creando talvolta sfondi e primi piani curiosamente armoniosi.   Credo che per lui rappresentassero un simbolo: più che un motivo di interesse pittorico, la testimonianza di un lavorare insieme per una causa comune che poi, col tempo, si sarebbe perso.

 

L’esperienza della cartella per il Cile rese più nitida la direzione, già intrapresa, di un’espressione che poggiava su motivazioni definite, traducendo l’esplicito nel linguaggio emozionale dell’immagine. Non una direzione univoca, perché il fascino della palude, della natura morta, delle composizioni pittoriche avrebbe mantenuto sempre un ruolo predominante nel suo lavoro,ma uno stimolo a proseguire nella ricerca.

L’anno seguente diede alle stampe una nuova cartella, “Ritratti”, una raccolta di cinque serigrafie di forte impronta collagistica accompagnata da cinque brevi componimenti che mio padre volle affidarmi, per nulla preoccupato dal mio poetare giovanile un po’ ingenuo, un po’ didascalico, come fu affettuosamente bacchettato da Vittorio Mezzomonaco su “Il pensiero romagnolo”.  Il tema era il potere, il potere subdolo o arrogante che non temeva di nascondersi in quegli anni e, come si leggeva tra le righe di una recensione di Davide Argnani su “Il Melozzo”, trattando di potere ogni colpo, anche basso, era lecito.

 

 

... tentato da un filo di metafisica

 

 

Durante le vacanze di Pasqua 1978 un gruppo di pittori dipinse le pareti esterne dell’asilo “La Betulla” di via La Greca a Forlì.  L’edificio, prefabbricato, aveva l’aspetto di una scatola di cemento, lungo i cui lati correvano enormi quadroni intonacati.   Si decise di riprodurre su quei pannelli disegni eseguiti dai bambini, da ingrandire fino a farli parere affreschi.

Giorgio ebbe in sorte due lunghe pareti, una frontale ed una laterale, altri curarono i lati adiacenti e Antonio Giosa realizzò un enorme fiore colorato da collocare all’ingresso.

Non sottovaluterei l’importanza di quel lavoro, che portò i pittori a contatto con una dimensione inconsueta, esplorata attraverso una serie di incontri preliminari, con l’accostamento delle opinioni di chi vedeva un suggerimento d’arte nelle opere dei bambini e di chi, come le insegnanti, in quelle opere sapeva leggere i bambini.

Giorgio si appassionò a quella rivelazione di fantasia e di immediatezza, riprese in mano lo stupendo, sconosciuto “Arte per nulla” di Federico Moroni, assimilò e, nel riprodurre quei segni e quei toni sulla parete, fece proprie la fluidità e l’incontaminata libertà del segno.  Sarebbero poi tornate, a distanza di tempo, sotto altre forme.

A riguardare col senno di poi, tra gli ultimi anni Settanta e i primi Ottanta il mondo espressivo di Giorgio sembrò preda di una serie di stimoli, alcuni di segno positivo come quest’ultimo e altri di segno negativo, che dettero l’impressione di uno sbandamento.  In realtà in quel periodo mancò quella serenità che nei momenti delle svolte e della ricerca aiuta a fissare una misura, ad individuare un linguaggio.

Due momenti molto difficili furono la scomparsa della madre, nel luglio del 1979, e la perdita del primo nipote, pochi giorni prima della nascita, nel febbraio successivo.   Se la prima fu dolorosa, e lo fu nella misura in cui la presenza della madre per lungo tempo era stata l’unico punto di riferimento della sua vita, l’assurdità della seconda lo colpì con violenza inaudita.  E tanto più lo colpì in quanto era già pronto, come avrebbe poi dimostrato negli anni seguenti, a colorare di tenerezza e di ingenuità il proprio tempo, per regalarlo senza riserve ai bambini.  Se riuscì a superare il primo dolore anche gettandosi a testa bassa nel completamento del lavoro organizzativo già avviato dalla madre in vista della quindicesima edizione della Biennale Romagnola d’Arte Contemporanea, avrebbe tenuto il secondo per sé, dentro, per molto tempo.

 

Tra il 1981 e l’’82 la fase di transizione ebbe in qualche modo termine, determinando svolte significative nel percorso della sua pittura.  Definirla “fase di transizione” è un mio arbitrio, trovandomi a dover tracciare una linea cronologica che in realtà non ebbe corrispondenza nella realtà.  Mio padre avrebbe definito “di transizione” altre fasi, quelle in cui il dipingere trovava una propria coerenza in una forma e in un contenuto ben definiti, come accade alla maggior parte dei pittori di fama i quali, una volta individuata la chiave di volta, che in genere coincide con la chiave per il successo, si dedicano pressoché ad essa soltanto e alla sua elaborazione.   Per lui ogni conferma aveva valore in quanto anticamera del dubbio, perché nella ricerca e nel mettersi in discussione trovava la molla per dipingere.  Ricordo infatti che al termine di ogni mostra, che rappresentava la sintesi di un momento di ricerca, conosceva un periodo di crisi durante il quale sentiva il bisogno di tornare alle origini, cioè alle paludi e al figurativo, come per esercitare la mano nell’attesa di nuovi esperimenti.

 

Nell’estate del 1981 fece stampare sul foglietto di presentazione di una mostra allestita a Villa Prati una sorta di testamento artistico, legato solo in parte a quella contingenza :

In una sintetica biografia potrei scrivere : “Nato fra la pittura, ho avuto per amici pittori e ho voluto usare la pittura per esprimermi e ritrovare negli occhi della gente le cose che più ho sentito dentro”.

E proseguiva: Quello che è certo è che mi è stata trasmessa la malattia del dipingere, il bisogno di riempire tele per tradurre sensazioni in immagini costituite da rapporti, strutture, colori e quindi da umori che si trovano e si alternano in relazione a quanto succede intorno....I temi, o come si usa comunemente dire “i soggetti”, possono variare perché sono esclusivamente pretesti.  Per questo sono diversi gli elementi che, nel tempo, ho utilizzato, anche se sento un costante interesse per i primi piani di palude.

A volte, come nel caso delle opere presentate in questa occasione, vengo tentato da un filo di metafisica.

 

Mentre scriveva queste parole, in realtà, aveva già tralasciato ogni tentazione di metafisica e si era dedicato anima e corpo ad un nuovo progetto, destinato a raccogliere gli elementi che avrebbero dato vita alla sua mostra forse più sconvolgente e certo più importante: quella che si sarebbe tenuta per poco più di una settimana, tra gennaio e febbraio 1982, al centro Culturale “Nuovo Ruolo” di viale Matteotti.

Sconvolgente ed importante non nel senso di un cambiamento di tecnica e di linguaggio, come era accaduto per i collages, né per il valore implicito dei quadri esposti, ma perché l’insieme delle opere, senza parole, enunciava la sua poetica.

Un primo piano di palude: unico tema, unico soggetto, unica concessione alla ricerca di contenuti e di significanti.   Decine di quadri ad olio, a tempera, ad acquarello, a matita raffiguranti lo stesso lembo di sterpaglia ma con colori diversi, luci diverse, emozioni diverse.

Sergio Camporesi scrisse in proposito : Caro Giorgio, a chi si meraviglia puoi dire che nella musica ci sono splendide variazioni sullo stesso tema ; che ogni scrittore cerca sempre di scrivere quel suo “particolare” romanzo ; che un pittore insegue tutta la vita un solo quadro, che è la sua ossessione, che è la sintesi del suo rapporto con la realtà.

E Andrea Brigliadori : Variazioni sul tema : unico, minimo e fisso.  Totale.  Il problema puro del dipingere.

Ma vi furono altri commenti, circostanziati, interessati ed interessanti, dai quali però vorrei estrapolare solo un’espressione. 

Davide Argnani : Compenetrazioni visuali che si situano tra il visionario e il metaforico... un racconto fluttuante ... ;

Rosanna Ricci : ... un amorfo e fluttuante organismo vivente da cui sprigiona una forza che pullula in ogni elemento del quadro ;

Fanny Monti : ... segno di pensiero, idillio di colore, nitida indecisione del sogno.

Vi è anche in questa occasione una coincidenza, come rilevai parlando del concetto di “onestà”.  In questo caso è la parola “fluttuante” e il senso del sogno, o meglio dell’indefinito del sogno.  La coincidenza è con la scoperta (o riscoperta, non so dire), fatta da mio padre proprio in quel periodo, del fascino sottilissimo dell’Ukiyo-E, cioè di quel particolare momento artistico giapponese (tra il XVII e il XIX secolo) che venne e viene definito “Immagini del mondo fluttuante”.  Non vi furono in alcun modo episodi di richiamo, nella sua pittura, di questo particolare mondo ; tuttavia qualcosa rimase, latente, ovunque.  E l’uso del termine “fluttuante”, scelto da altri per parlare delle sue opere proprio in quel momento, non riesce a sembrarmi del tutto casuale.

 

 

Venezia

 

Nel dicembre del 1982 fu ripetuta l’esperienza della cartella.  Come era stato per “Arte per il Cile”, c’era qualcosa che andava al di là del tema, dello scopo, del risultato stesso. Era il il senso di condurre insieme con altri artisti un lavoro che avvicinava gli uni agli altri, ognuno con la propria specificità ma in vista di un obiettivo comune.   Fu anche, quello, il primo passo della galleria, poi anche associazione culturale, “Melozzo”, all’interno della quale negli anni successivi molti di quegli artisti avrebbero tentato di creare un ambiente che svolgesse il ruolo di quelli che un tempo venivano chiamati “cenacoli”, zone franche aperte ad una pluralità di personalità artistiche.

Ho già detto quanto Giorgio tenesse al confronto, alla collaborazione, ma anche al giudizio degli amici.  Ma la sua ricerca si svolgeva nello studio, tra i suoi pennelli e sul suo cavalletto, e trovava il primo nutrimento nelle tracce delle sue esperienze.

Una di queste esperienze fu un viaggio a Venezia nel 1984.  Uno dei tanti; Venezia lo affascinava, ma forse fino a quel momento non aveva messo veramente a fuoco quali fossero gli elementi che in modo così viscerale lo attraevano.  Fu un vecchio portone (quello che poi avrebbe dipinto e battezzato “Il portone dell’Inquisizione”) a fargli comprendere quale fosse l’intimo meccanismo del tempo che traspirava e traspariva da ogni frammento di quella città.   Non fu il carnevale fantastico che rinasceva, non ancora mercificato, in quegli anni, per quanto poi il contrasto che legava la vita delle maschere e dei costumi con la morte dei muri, dei legni, delle pietre gli sarebbe servito a rendere un’atmosfera e una dimensione sottili.  Ma non fu il carnevale la molla ; anzi, il suo modo particolare di sfumare le atmosfere del carnevale traduceva suggestioni che partivano da altre motivazioni.   I costumi intesi come fantasmi, le maschere in vetrina, spesso accostate alle figure riflesse nel vetro, gli interni dei negozi resi con gli stessi sviluppi di colore dei portoni e dei graffiti, tutto concorreva a suggerire un gioco complesso tra il passato e l’oggi, quello che Franco Solmi definì “la memoria presente”.

Certo fu come una rivelazione, attraverso la quale in Venezia ritrovò gli stessi elementi che l’avevano attratto nella palude.  E, nonostante le apparenze, non fu affatto una concessione al figurativo.   Lo espresse benissimo Franco Camporesi, indicando : ... la silenziosa e timida presenza della mediazione della pittura informale, ma nella versione emiliana e lombarda di “ultimo naturalismo”, secondo la nota definizione di Arcangeli.

Ed un critico, celato dietro lo pseudonimo di Spectator, nel dichiarare “Realtà e sogno sono la caratteristica principale di questa pittura signorile e colta”, parlò di una netta impressione di immergersi in un fluttuante clima di sogno.   Ancora il termine fluttuante, ancora il senso del sogno.

 

Dai portoni di Venezia ai manifesti strappati, ai muri sbrecciati, a tutti quei lembi di realtà che potevano suggerire le sovrapposizioni tra passato e presente che il tempo e l’uomo stesso mettono a nudo il passo fu breve.  Se il pretesto fu questo trascorrere del tempo sulle cose, il gusto fu quello di sorprendere in quei soggetti un’infinità di soluzioni di colore e una gamma inesauribile di sfumature e di forme.

Ad estendere ancor più questa gamma erano intervenute altre impronte lasciate da due esperienze apparentemente estranee tra loro: un libro fotografico e una città. Avevamo scelto quel libro, mia moglie ed io, anni addietro; stavamo cercando tra i libri d’arte, sui banchi di Feltrinelli, un regalo per il suo compleanno.  Tra le solite monografie di Van Gogh, Picasso, Dalì spiccavano per contrasto due volumi sottili, pieni di foto a tutta pagina che riproducevano i graffiti di cui erano saturi i muri della metropolitana di New York.  Ne prendemmo uno soltanto, convinti ma non certi che gli sarebbe piaciuto.  Invece lui lo prese, cominciò a sfogliarlo e man mano che voltava le pagine si vedeva nei suoi occhi aumentare l’interesse, finchè non si sedette sulla sua sedia antica dimenticandosi completamente di noi.  Si soffermava su ogni immagine come se stesse leggendo le righe di un romanzo o i versi di una poesia.  Ci disse poi che era stato uno dei più bei regali mai ricevuti.  Nonostante tutti i nostri sforzi, non riuscimmo più a trovare, in seguito, il secondo volume.  Ma avremmo ritrovato tracce di quell’improvviso innamoramento in tanti quadri, anche ad anni di distanza.

La città era Parigi.  Andò a Parigi più volte: con mia madre, con Sergio Camporesi (con il pretesto di una visita all’amico Cremonini), poi con noi ed ogni volta riportò con sé suggestioni diverse, diverse da quelle di Venezia: se là gli elementi erano l’acqua, le trasparenze, le muffe, qui erano i clochards, negozi al cui interno dominava il rosso, lo studio di Cremonini nel quale dominava il giallo, la fontana del Beauburg; là i colori del tempo, qui i colori della gente e della vita.

Giorgio aveva bisogno di vedere, di assimilare con gli occhi per poi tradurre col pennello l’intimità delle cose.

 

In quel periodo, verso la seconda metà degli anni Ottanta, mio padre eseguì anche una serie di copie di quadri più o meno famosi da Mirò, Music, Chagall, Picasso, Goya e Rembrandt.  Non lo interessava la fedeltà assoluta agli originali, non lo interessava nemmeno ritrovare o addirittura assimilare la pennellata dei grandi maestri.  Lo fece, semplicemente, perché i suoi nipoti cominciassero fin da piccoli a sognare anche su quei sogni.  Tappezzò di quelle copie le pareti delle stanze di Micaela e Alessandro e, appena gli era possibile, trasformava in gioco l’osservazione minuziosa di quei mondi.  Le carneval d’Arlequin di Mirò divenne così una miniera inesauribile, qual era, di storie, di fiabe, di personaggi e dimensioni.   Le figure sulla spiaggia di Picasso da tre divennero quattro, al momento della nascita di Alessandro ; i cavalli di Music galopparono sulla parete come nei dipinti rupestri degli uomini-bambino del paleolitico. Giorgio fu un nonno splendido, capace di giocare per ore con il gusto di giocare, capace di trasformare in gioco anche l’atto del dipingere.

L’unico motivo di tristezza fu l’avvio di una lunga malattia che proprio a metà degli anni Ottanta colpì mia madre.  Mia madre, i suoi figli (io e mia moglie, figli per lui a pari titolo e con pari affetto), i suoi nipoti venivano comunque prima di ogni altra cosa.  Era stata la scelta della sua vita, compiuta sul finire degli anni Quaranta e mai rinnegata, l’unica che poteva frapporsi non tanto alla pittura, quanto alla volontà di dipingere, l’unica che poteva sovrapporsi allo stato d’animo necessario per prendere in mano i pennelli e sedersi di fronte al cavalletto.   Le fasi alterne della malattia di mia madre scandirono da quel momento il suo tempo.  Vi erano periodi di relativa serenità, di sollievo, durante i quali si dedicava alla sua ricerca riempiendo fogli e fogli di disegni a matita, di acquerelli o affrontando le grandi tele.  Vi erano invece i momenti di sconforto durante i quali si lasciava andare ad attività, come la ricerca e catalogazione di francobolli e monete, che piacessero anche a mia madre, per poter condividere con lei l’attesa e tenere occupata la mente. E sempre c’era il tempo di giocare con i bambini, se solo lo chiedevano, o di parlottare con loro mentre dipingeva; poi, quando andavamo a prenderli, faceva in modo che restassero un poco a giocare con mia madre e, con un atteggiamento quasi di complicità, ci conduceva nello studio per mostrarci gli ultimi lavori e chiedere il nostro parere.  Sapevo, ma fingevo di non saperlo, che teneva molto di più al giudizio di mia moglie, perché era istintivo e sempre franco.  Cercava di cogliere le reazioni negli occhi delle persone che lo circondavano: noi, mia madre, mio zio, gli amici pittori che andavano a trovarlo.  Soprattutto teneva al giudizio di Daniele, con il quale poteva parlare di pittura per ore ed ore “ricaricando le batterie”, come era solito dire.

 

 

Non esiste un soggetto che non si possa trattare

 

 

Negli ultimi anni Ottanta l’intuizione dei manifesti strappati pare predominare sulle altre ed anche nelle paludi, nei muri, nei portoni che ancora escono quasi per germinazione spontanea dal pennello si avvertono la stessa raffinatezza di composizione, gli stessi giochi di colore dei primi.

Proprio in quegli anni giunsero anche alcuni dei più importanti riconoscimenti della critica : il terzo posto al “Roncaglia”, prestigiosa biennale emiliana (in giuria Franco Farina, Everardo Dalla Noce e Gianni Dova), gli inviti ad esporre alle prime edizioni di EtruriArte, a Rotonda 88, ad Arte Fiera 89, ad Aqua (accanto a Casorati, Schifano, Trubbiani), il Premio Sulmona nell’89 e nel ’90.   Contemporaneamente l’interesse suscitato dai suoi lavori lo convinse ad impegnarsi in una serie di mostre personali : al Voltone della Molinella di Faenza, a Forlì, a Cesena e poi a Genova e a Modena.

 

Ma qualcosa stava cambiando, come nella vita anche nella pittura.

Nel luglio del 1990 in un’intervista rilasciata a Davide Argnani si legge : Ci si illude di semplificare le cose o di trovare il mondo e poterlo mettere dentro a un “pezzo” ; poi alla fine ti accorgi che le cose più elementari sono quelle che contano di più e quindi, pian piano, non fai altro che cercare, semplificare o rendere, insomma, più essenziale quello che fai.  Questa è la ricerca vera perché non esiste un soggetto che non si possa trattare.

La sua pittura si stava avvicinando sempre più a quella forma, appunto, essenziale che lo portava ad operare ad un passo dal realismo e ad un passo dall’informale.

In una mostra alla Galleria Melozzo, nel ’91, espose tra gli altri due quadri affiancati, “Assenso” e “Consenso”; lo stesso soggetto, un mosaico ingigantito, due esiti : uno fortemente colorato, l’altro quasi in bianco e nero.   Al di là del significato insito nei titoli, cui tuttavia Giorgio dava pochissima importanza, perché venivano adattati sempre a posteriori forzando in qualche modo la freschezza dell’intuizione, il senso originario era che il colore è ovunque, sia dove è dichiarato sia dove è quasi inesistente.

... “Tutto è colore”.

Era già l’informale.  Ma a pochi metri di distanza sorprendeva una palude, e poi ancora un’altra, leggibile, affiancata ad una tela sulla quale sembrava dipinta ugualmente una palude, ma nella sua essenza, impercettibile senza l’accostamento.

Verso quali esiti stava progredendo il suo percorso?  Sembrava quasi che, nel cercare il futuro, guardasse al passato, ma con occhi completamente nuovi.

Nel gennaio del ’92 i giornali locali salutarono una sua mostra alla Chiesina dell’Ospedale di Meldola con questi titoli : “Fuori dalle paludi / Dominano le tele di Giorgio Spada ma c’è dell’altro” (Il Resto del Carlino, articolo di Rosanna Ricci) ; “Mostra di Giorgio Spada a Meldola / Una ricerca senza fine” (Il Messaggero).

Una ricerca senza fine.

Negli anni successivi curò con Daniele Masini gli allestimenti di alcune importanti mostre; tra le altre una splendida antologica di Gino Del Zozzo e quelle di Sergio Camporesi e di Umberto Zimelli.

Continuava a dipingere.  A volte nelle poche ore libere, nei rari momenti di serenità, lasciava su fogli di notes minuscoli acquarelli o disegni a china, come appunti per qualcosa da sviluppare quando la situazione fosse migliorata.  Ma mia madre stava male, peggiorava di giorno in giorno.  Il suo tempo era dominato dall’angoscia.

Fu questa, forse, a far sì che qualcosa si spezzasse.

La sua ricerca senza fine terminò qualche giorno prima del 14 aprile 1999.

Ma i suoi colori, non solo quelli lasciati sulle tele, rimangono e non ci sarà tempo che possa sbiadirli.

Sergio Spada